Calore
Heat
Durata
102
Formato
Regista
Joe (Joe Dallesandro) va a Hollywood alla ricerca della sua grande occasione. Per sbarcare il lunario gli tocca però prostituirsi e le sue ambizioni restano sempre più sullo sfondo, lasciando il posto a un circolo vizioso di avventure e relazioni.
Morrissey chiude la trilogia iniziata con Flesh (1968) e proseguita con Trash – I rifiuti di New York (1970) realizzando un film in parte più normalizzato rispetto ai due precedenti capitoli, meno sfacciato e strafottente. Il regista sembra far propria un'urgenza di ingraziarsi il pubblico fino a questo momento mai avvertita nel suo cinema, dove lo spettatore era sempre relegato ai margini di narrazioni fortemente ripiegate su se stesse e contraddistinte da uno sperimentalismo involuto e a tratti persino autistico. Un proposito destinato a fallire, visto che la materia trattata è il degrado dell'America precipitata in un abisso di emarginazione e disperazione. Il corredo di bizzarrie e stranezze non viene meno, così come qualche succosa caratterizzazione di contorno, ma la voglia di rientrare tutto sommato nei bordi finisce col limitare i motivi di interesse (anche la lettura parodica di Viale del tramonto del 1950 è uno sterile ammiccamento più triviale che umoristico, e regge pochissimo). La desolazione degli ambienti colpisce però nel segno. A produrre c'è ancora una volta la factory warholiana.
Morrissey chiude la trilogia iniziata con Flesh (1968) e proseguita con Trash – I rifiuti di New York (1970) realizzando un film in parte più normalizzato rispetto ai due precedenti capitoli, meno sfacciato e strafottente. Il regista sembra far propria un'urgenza di ingraziarsi il pubblico fino a questo momento mai avvertita nel suo cinema, dove lo spettatore era sempre relegato ai margini di narrazioni fortemente ripiegate su se stesse e contraddistinte da uno sperimentalismo involuto e a tratti persino autistico. Un proposito destinato a fallire, visto che la materia trattata è il degrado dell'America precipitata in un abisso di emarginazione e disperazione. Il corredo di bizzarrie e stranezze non viene meno, così come qualche succosa caratterizzazione di contorno, ma la voglia di rientrare tutto sommato nei bordi finisce col limitare i motivi di interesse (anche la lettura parodica di Viale del tramonto del 1950 è uno sterile ammiccamento più triviale che umoristico, e regge pochissimo). La desolazione degli ambienti colpisce però nel segno. A produrre c'è ancora una volta la factory warholiana.