Memoria
Memoria
Durata
136
Formato
Regista
Jessica (Tilda Swinton) arriva in Colombia dalla Scozia: nel mezzo della natura sudamericana, dopo aver sentito un curioso rumore, inizia ad avere una strana sindrome sensoriale. Giunta a Bogotà per incontrare sua sorella, conosce Agnès, un’archeologa che studia resti umani scoperti in un tunnel in costruzione.
Esordio in lingua inglese per il thailandese Apichatpong Weerasethakul, Memoria è un film che scava nella psiche umana vivendo più di sensazioni che di parole, con le consuete oscillazioni ipnagogiche a cavallo tra il sonno e la veglia care al cinema del cineasta: se sono proprio i momenti più “sensoriali” quelli che affascinano di più e rendono la visione magnetica e misticheggiante al punto giusto, maggiori limiti ci sono quando Apichatpong Weerasethakul si preoccupa troppo della narrazione e di offrire una logica all’esperienza vissuta dal personaggio principale, interpretato egregiamente da una Tilda Swinton ridotta a una presentazione transitoria e indecifrabile (oltre che produttrice esecutiva). Gran parte delle suggestioni proposte si ricollegano direttamente all’ascolto dei suoni (anche in ambito cinematografico e di sound design), tutti misteriosi ed ermetici a cominciare da un tonfo sordo e vigoroso, simile a un raccapricciante boato senza causa e senza origine, che ricorre più volte nell’arco della visione. Ma Memoria è, a conti fatti, soprattutto un film sulla sopravvivenza: oltre che su quella dei ricordi, delle immagini, delle sensazioni uditive e perfino dei resti umani, ritrovati nell’ambito degli scavi per un tunnel, in prima istanza sul sopravvivere rispetto a se stessi, visto che il personaggio della Swinton sembra lei stessa un pesce fuor d’acqua in rapporto alla vita che continua ad abitare con fatica e ai dettagli che la circondano (ha una carta di credito scaduta, ad esempio, e pensa ancora che la propria dentista sia viva, mentre la sorella e il genero sono di avviso opposto). Il risultato è un film che fa il suo dovere, ma ci si poteva aspettare maggiori guizzi e una certa solidità in più da una pellicola dalle premesse tanto ambiziose, che invece riesce a catturare l’attenzione quasi esclusivamente attraverso i consueti tableaux vivants di rara perfezione formale da sempre cari al cinema di Apichatpong: a questo giro somigliano più che mai a delle installazioni quasi museali di potente e irreversibile malinconia, nelle quali è possibile rimanere ad ascoltare per diversi minuti, senza stacchi e con inquadrature dal montaggio interno, il rumore dei ruscelli, o in alternativa, a volersi impegnare, lasciar fluttuale il proprio sguardo appresso al fruscio ondeggiante, lento e inesorabile, delle foglie degli alberi, anch’essi depositari probabilmente di chissà quali e quanti residuati metafisici del passato. Decisamente rivedibile, invece, la svolta finale, in cui le metafore si fanno troppo esplicite nei dialoghi, citando oggetti d’archivio o dispositivi di rilevamento come gli hard disk e le antenne, e c’è una svolta “aliena” (peraltro in CGI!) che dice molto dell’esperienza di un cineasta che lontano dai propri luoghi natii dà l’idea di essersi sentito come sradicato e di aver girato un po’ a vuoto nel coccolare il proprio ostentato manierismo, stavolta drammaticamente prossimo al circuito chiuso nonostante i (non pochi) spunti disseminati nel corso della visione. Presentato in concorso al Festival di Cannes 2021.
Esordio in lingua inglese per il thailandese Apichatpong Weerasethakul, Memoria è un film che scava nella psiche umana vivendo più di sensazioni che di parole, con le consuete oscillazioni ipnagogiche a cavallo tra il sonno e la veglia care al cinema del cineasta: se sono proprio i momenti più “sensoriali” quelli che affascinano di più e rendono la visione magnetica e misticheggiante al punto giusto, maggiori limiti ci sono quando Apichatpong Weerasethakul si preoccupa troppo della narrazione e di offrire una logica all’esperienza vissuta dal personaggio principale, interpretato egregiamente da una Tilda Swinton ridotta a una presentazione transitoria e indecifrabile (oltre che produttrice esecutiva). Gran parte delle suggestioni proposte si ricollegano direttamente all’ascolto dei suoni (anche in ambito cinematografico e di sound design), tutti misteriosi ed ermetici a cominciare da un tonfo sordo e vigoroso, simile a un raccapricciante boato senza causa e senza origine, che ricorre più volte nell’arco della visione. Ma Memoria è, a conti fatti, soprattutto un film sulla sopravvivenza: oltre che su quella dei ricordi, delle immagini, delle sensazioni uditive e perfino dei resti umani, ritrovati nell’ambito degli scavi per un tunnel, in prima istanza sul sopravvivere rispetto a se stessi, visto che il personaggio della Swinton sembra lei stessa un pesce fuor d’acqua in rapporto alla vita che continua ad abitare con fatica e ai dettagli che la circondano (ha una carta di credito scaduta, ad esempio, e pensa ancora che la propria dentista sia viva, mentre la sorella e il genero sono di avviso opposto). Il risultato è un film che fa il suo dovere, ma ci si poteva aspettare maggiori guizzi e una certa solidità in più da una pellicola dalle premesse tanto ambiziose, che invece riesce a catturare l’attenzione quasi esclusivamente attraverso i consueti tableaux vivants di rara perfezione formale da sempre cari al cinema di Apichatpong: a questo giro somigliano più che mai a delle installazioni quasi museali di potente e irreversibile malinconia, nelle quali è possibile rimanere ad ascoltare per diversi minuti, senza stacchi e con inquadrature dal montaggio interno, il rumore dei ruscelli, o in alternativa, a volersi impegnare, lasciar fluttuale il proprio sguardo appresso al fruscio ondeggiante, lento e inesorabile, delle foglie degli alberi, anch’essi depositari probabilmente di chissà quali e quanti residuati metafisici del passato. Decisamente rivedibile, invece, la svolta finale, in cui le metafore si fanno troppo esplicite nei dialoghi, citando oggetti d’archivio o dispositivi di rilevamento come gli hard disk e le antenne, e c’è una svolta “aliena” (peraltro in CGI!) che dice molto dell’esperienza di un cineasta che lontano dai propri luoghi natii dà l’idea di essersi sentito come sradicato e di aver girato un po’ a vuoto nel coccolare il proprio ostentato manierismo, stavolta drammaticamente prossimo al circuito chiuso nonostante i (non pochi) spunti disseminati nel corso della visione. Presentato in concorso al Festival di Cannes 2021.