In una non precisata nazione dell'Europa dell'est, un dittatore militare (Mikheil Gomiashvili) viene spodestato dalla rivoluzione ed è costretto a una fuga disperata in compagnia del suo nipotino (Dachi Orvelashvili).

Ormai trasferito in Francia per poter lavorare senza censure e costrizioni, l'iraniano Mohsen Makhmalbaf dirige una co-produzione internazionale girata tra le architetture sovietiche della Georgia, eletta a “non luogo” che si fa sfondo per un'amara parabola sul totalitarismo. Visto in Orizzonti alla settantunesima Mostra del Cinema di Venezia, il film è racconto allegorico volutamente naif che, nella sua decontestualizzazione storico-geografica, richiama realtà note come il crollo dei regimi comunisti, la dittatura teocratica dello stesso Iran e il più recente caso della Libia (con un riferimento fin troppo ovvio alla fine di Gheddafi). Gli intenti sono più che nobili, ma la pellicola finisce con l'incespicare in una morale schematica e decisamente scontata: la democrazia non può essere tale se persistono la violenza e il desiderio di vendetta. Da un regista così acuto era lecito aspettarsi qualcosa in più.
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