Tilaï
Tilaï
Durata
81
Formato
Regista
Saga (Rasmané Ouédraogo) torna dopo due anni al villaggio natale, scoprendo però che la sua donna (Ina Cissé) è diventata sposa del padre. Il ritorno di fiamma tra i due spinge il genitore a suicidarsi per il disonore; Saga evita la condanna a morte solo per l'intercessione del fratello (Assane Ouedraogo), che lo lascia scappare. La resa dei conti è però solo rinviata.
Rispetto a Yaaba (1989), il regista burkinese Idrissa Ouedraogo si conferma da un lato estremamente coerente con l'essenzialità e il ferreo rigore stilistico, spingendo però dall'altro sui toni cupi e drammatici e sulla denuncia della tradizione delle piccole comunità rurali africane, che diventa chiusura totale. Se il film precedente, infatti, era quasi una favola sull'amicizia e sulla tolleranza, amara e dura ma tutt'altro che priva di speranza, qui viene accentuato l'elemento della tragedia, con lontani richiami shakespeariani, portatrice di ben poca speranza. È un'opera sul senso dell'onore e delle responsabilità, sulle conseguenze dolorose delle proprie scelte e sulle vendette: cupo e sufficientemente crudo, il film riesce a inquietare e a dare uno sguardo preciso – a tratti da antropologo – sulle comunità africane. Pur con qualche lungaggine di troppo e uno stile che già rischia di diventare manierismo, è la conferma di un regista importante, come dimostra il Grand Prix Speciale della Giuria vinto al 43º Festival di Cannes.
Rispetto a Yaaba (1989), il regista burkinese Idrissa Ouedraogo si conferma da un lato estremamente coerente con l'essenzialità e il ferreo rigore stilistico, spingendo però dall'altro sui toni cupi e drammatici e sulla denuncia della tradizione delle piccole comunità rurali africane, che diventa chiusura totale. Se il film precedente, infatti, era quasi una favola sull'amicizia e sulla tolleranza, amara e dura ma tutt'altro che priva di speranza, qui viene accentuato l'elemento della tragedia, con lontani richiami shakespeariani, portatrice di ben poca speranza. È un'opera sul senso dell'onore e delle responsabilità, sulle conseguenze dolorose delle proprie scelte e sulle vendette: cupo e sufficientemente crudo, il film riesce a inquietare e a dare uno sguardo preciso – a tratti da antropologo – sulle comunità africane. Pur con qualche lungaggine di troppo e uno stile che già rischia di diventare manierismo, è la conferma di un regista importante, come dimostra il Grand Prix Speciale della Giuria vinto al 43º Festival di Cannes.