Perdizione
Kárhozat
Durata
120
Formato
Regista
Karrer (Gábor Balogh) trascorre la sua vita istante dopo istante, immerso nel più totale grigiore di giorni mesti e deprimenti. La sua esistenza appare insostenibile a chiunque, mentre la sua frustrazione si fa sempre più palpabile e incontrovertibile.
Sul finire degli anni '80, il regista ungherese Béla Tarr dà vita alla metamorfosi più decisiva e imprescindibile di tutta la sua carriera: con Perdizione abbandona definitivamente il colore per approdare a un cinema sostanzialmente “unico”, girato secondo i canoni e codici di uno stile che usa il bianco e nero e il piano-sequenza quali punte di diamante e capisaldi irrinunciabili di un modo personale di intendere le immagini cinematografiche, il loro valore e i loro orizzonti possibili. E Perdizione è una pellicola caratterizzata da un dialogare rancoroso e straniato, sovraccarico di elementi morali, sottotesti, implicazioni filosofiche di vario genere: un flusso ininterrotto che dona al film un fascino apocalittico, amplificato oltre ogni misura dall'approccio di Tarr. Viscerale e metafisica, cupa e disperata, un'opera che non rinuncia alla tangibilità ruvida dei propri fotogrammi, a dispetto di quanto di solito l'assenza di colore induce a fare («Il bianco e nero infatti contiene in sé un principio di astrazione e lontananza dalla concretezza dell'oggetto», P. Bertetto). L'approdo definitivo non possono che essere i cani randagi, simboli di una fine del mondo già materializzatasi chissà quando e chissà dove, della quale gli umani rimasti nel tempo presente, all'interno di un universo così crudo e asettico, non sono che la diretta e indifferente manifestazione. Potentissimo, anche se il meglio (per Tarr) deve ancora arrivare.