The Disciple
The Disciple
2020
Paese
India
Genere
Drammatico
Durata
127 min.
Formato
Colore
Regista
Chaitanya Tamhane
Attori
Aditya Modak
Sumitra Bhave
Deepika Bhide Bhagwat
Kiran Yadnyopavit
Sharad Nerulkar (Aditya Modak) ha un sogno: diventare un vocalist indiano, come lo era suo padre. Tuttavia, la sua scelta di vita non sarà semplice.  

Chaitanya Tamhane, regista, produttore e sceneggiatore indiano, vincitore col suo esordio, Court (esempio di critica sociale alla giustizia indiana), della sezione Orizzonti e del Leone del futuro come miglior opera prima a Venezia nel 2014, ha realizzato il suo film successivo, The Disciple, potendo contare sul prestigioso apporto in qualità di produttore esecutivo del cineasta messicano Alfonso Cuarón, che l’ha preso sotto la sua ala protettiva durante la lavorazione di Roma facendogli anche da tutor per due anni nell’ambito del progetto Rolex Mentor. The Disciple si presenta, per il trentenne Tamhane, come un film molto personale e fortemente radicato nella cultura del suo paese di origine, della quale esplora e porta in scena la musica più classica, archetipica e rappresentativa, che a delle orecchie occidentali può risultare facilmente fastidiosa nelle sue eccessive, prolungate e sfibranti reiterazioni. Superato questo scarto culturale comunque non da poco, The Disciple, via via che la sua comunque prolissa narrazione prende corpo, mette in evidenza il nucleo fondamentale di un film senz’altro acerbo e non di rado pretenzioso, ma dotato di un apparato formale all’insegna dell’atarassia e del controllo (stilistico, e forse anche morale) sulla propria confezione. L’autore sembra rivaleggiare con ciò che la musica indiana, nella migliore delle ipotesi, dovrebbe fare con chi la suona e l’ascolta, veicolando astrazione rispetto al giogo delle passioni, totale imperturbabilità rispetto al vizio e alla corruzione dell’animo e un’insolita ma totalizzante esperienza estatica dell’arte spalancata tanto all’ascesi quanto al soprannaturale. Tale ricerca quasi religiosa è perseguita da The Disciple con un’ossessività perfino intransigente, che si concede lunghe e paralizzate sequenze di riprese di musica dal vivo e una struttura circolare e ridondante che ragiona per allitterazioni, assonanze, spesso per pure e semplici soluzioni copia carbone di se stesse: si vedano ad esempio i ricorrenti ralenti del protagonista in moto (dal valore al contempo precettivo e onirico), le brevilinee scene di masturbazione al computer, volte a incastrarlo in una capsula inscalfibile di solitudine, e i dialoghi che tematizzano esplicitamente e con una certa dose di didascalismo tanti dei temi convocati. Sotto la superficie di un approccio in parte discutibile, che mostra eccessiva confidenza nei suoi pochi mezzi nella propria calcolata atarassia, sopravvive però il cuore pulsante e la sincerità tetra e spiazzante di un lungometraggio di una durezza mai urlata ma, a conti fatti, perfino impudica e disperata. Stoccate che vengono inferte pur parlando, ma fuor di retorica e con un polso molto forte su ipocrisie e cortocircuiti della contemporaneità, di sogni artistici di gioventù, portati avanti da nuove generazioni spesso incapaci di affrancarsi dalla mediocrità viscida e immemore dei loro padri e di cattivi maestri non all’altezza. Parla soprattutto e più superficialmente di fallimento nella ricerca della perfezione dell’arte, The Disciple, ma anche dello snaturamento delle identità locali come quella indiana che si ritrovano schiacciate e deprivate da una palese e non sempre sostenibile occidentalizzazione di grana grossa del gusto (si vedano la sequenza, straniante e incidentalmente toccante, in cui il protagonista si ritrova imbambolato a fissare una pubblicità di profumi o i tanti riferimenti, tanto pacchiani quanto ammalianti, a Fame India, versione indiana di Saranno famosi e dei talent show musicali a noi più vicini). Particolarmente significativo, con l’approssimarsi del finale e tra i momenti più dinamici e meno congelati e ipnotici, anche il dialogo che vede tra i protagonisti un critico musicale e studioso di musica classica indiana, volto a smitizzare tanti luoghi comuni sulla componente mitologica dell’invasamento mistico e quasi innato degli artisti, con conseguenze urticanti ma in fin dei conti anche catartiche. Presentato in Concorso alla Mostra del Cinema di Venezia 2020.
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