Costantino (Gavino Ledda) è un vecchio pastore sardo che ha perso quanto aveva più a cuore in un terribile incendio: il suo agriturismo, Assandira, ma soprattutto il figlio Mario (Marco Zucca). Nel frattempo, la moglie di quest’ultimo, la tedesca Grete (Anna König), è incinta in ospedale. 

Regista da sempre attentato alla sua terra d’origine, la Sardegna, con ricadute il più delle volte scabre e ruvide, Salvatore Mereu è anche un cineasta spesso ancorato a lavorazioni travagliate e non di rado complicate dal punto di vista produttivo, che non lo rendono certo un autore prolifico. In questo caso ha spinto molto in alto il tasso di ambizione del suo cinema cimentandosi con l’adattamento del romanzo Assandira di Giulio Angioni e tornando a soffermarsi su una Sardegna dai forti contrasti sociali e identitari, divisa tra la selvaggia e non conciliata bellezza del paesaggio e un immaginario regressivo, frutto di contrasti non conciliati tra passato e presente e da uno spirito turistico invasivo e alienante, talmente marcato da smarrirne e slabbrarne la purezza originaria. Il cuore di Assandira, nelle intenzioni di Mereu, è però il protagonista interpretato da Gavino Ledda, autore di Padre padrone (1977), romanzo autobiografico dal quale i Taviani trassero il loro omonimo e celebre film. La scelta di far interpretare a lui un padre molto diverso, ma dai risvolti non meno marcati e senza ritorno, è sicuramente azzeccata, perché Ledda dà l’impressione dal primo all’ultimo minuto di essere un (non) attore assolutamente calzante e di rara autenticità, con dalla sua un volto, delle rughe profonde e un’espressione spenta e stordita dagli affanni che sono un valore aggiunto (con in più qualche rimando, connesso al suo personaggio, alla tragedia classica di Sofocle e alla nozione secondo cui ogni mancata nascita può rappresentare, in contesti dominati da un fato particolarmente precario e castrato, un dono). Peccato però che, dopo un prologo di livello che sembra rifarsi ai sontuosi giochi di poche luci e tante ombre e ai riflessi tragici e funerei del miglior cinema del regista turco Nuri Bilge Ceylan (si pensi in particolare alla messa in scena concretissima e insieme quasi astratta del suo C’era una volta in Anatolia), il film progressivamente si areni a causa di un tracciato narrativo slabbrato e confuso, nel quale è forse eccessiva la confidenza verso il portato delle presenze fisiche dei propri attori e gli echi sinistri di un inquietante e perfino morboso triangolo familiare dall’eros sotteso e inespresso: un’implicazione sottilmente torbida ma, un po’ come tutto il film, mai davvero infuocata, nonostante il riferimento all’elemento naturale del fuoco sia tutt’altro che peregrino e alluda a una disintegrazione di anime, volti e identità delle quali sono destinate a restare, probabilmente, solo cenere, prostrazione e stanchezza esistenziale.  Presentato fuori concorso alla Mostra del cinema di Venezia 2020.
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