Federico Fellini è ancora una volta al lavoro a Cinecittà, impegnato con le riprese di un film ispirato all'America di Franz Kafka, romanzo giovanile del grande scrittore ceco. Alcuni giapponesi intendono intervistarlo, ma per il regista riminese è soprattutto tempo di rendez-vous col proprio glorioso passato artistico.

Il backstage si anima, Federico Fellini sovrappone cinema e vita: il risultato, seppur diligente, risulta in definitiva troppo terminale e smaccatamente senile per non suscitare qualche legittimo dubbio in chi guarda. La sensazione non è tanto quella di un cineasta che ha esaurito tutto ciò che aveva da dire (un'aporia da cui in realtà prende il la tutto il cinema di Fellini, da sempre), quanto piuttosto l'incapacità di volgere tale nevrosi creativa in un processo narrativo e poetico illuminante come in passato. Rimane allora il compiacimento per l'affabulazione e il gioco di prestigio. Una cortina di fumo, un'esplosione, e le immagini de La dolce vita (1960) che tornano sotto gli occhi e i corpi invecchiati e imbolisiti di un Marcello Mastroianni conciato da Mandrake e dell'indimenticata Anitona Ekberg: «Quante domande c'avrei da farti ancora. Per esempio: c'avresti un goccettino de grappa?», «Ma vaffanculo, Marcellino!». Una resa dei conti che sa di nostalgia ma anche di sberleffo per la propria stessa malinconia, avvantaggiando un'ambiguità di fondo un po' infeconda. Gran Premio al 15° Festival di Mosca e premio del 40° anniversario a Cannes.


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