Passando di proprietario in proprietario, l'asinello Eo si confronta con le brutture del mondo che lo circonda. Spesso costretto alla sofferenza, troverà anche qualche momento di conforto, esplorando scenari di grande forza simbolica tra la Polonia e l'Italia contemporanea.

Sulla base di Au Hasard Balthazar (1966) di Robert Bresson, unico film a commuoverlo per davvero (secondo le sue parole), Jerzy Skolimowski si è spinto ancora una volta nel territorio della sperimentazione, con un'opera radicale nel voler ragionare sulle potenzialità del linguaggio cinematografico. Dopo le suggesioni teoriche di 11 minutes (2015), splendido esempio di film sulla precarietà del presente, in maniera coerente con quanto fatto per tutta la carriera, il grande regista polacco riflette sulla natura stessa dell'immagine, attribuendo senso profondo a soluzioni visive spiazzanti. Nell'affrontare la parabola del protagonista Eo, Skolimowski abbandona la tensione spirituale che permea il capolavoro di Bresson, allineandosi a un'idea di cinema purissimo in cui il rigore formale accoglie al suo interno un incandescente fluire di magistrali vituosismi stilistici. La triste esistenza dell'asinello è messa in scena con dolente partecipazione, ma Skolimowski riesce a creare un consapevole distacco che argina il devastante senso di smarrimento e sconforto che accompagnava Balthazar. La volontà di creare un'esperienza audiovisiva concettuale senza compromessi, porta lo spettatore a riflettere sul senso stesso di un'operazione che usa gli ambienti in chiave simbolica, ricorrendo anche a viraggi in rosso da Inferno dantesco, ragiona sull'atto del guardare (le soggettive dell'animale), sulla natura primordiale contrapposta al degrado ambientale causato dall'uomo e si interroga sul concetto di bellezza, contrapponendo ad esempio alla spoglia semplicità dell'asino la scultorea prestanza del muscoloso corpo dei cavalli. Eo va incontro al suo tragico destino osservando con occhi dolcissimi, velati di dolore,  i freaks che lo circondano, in un crescendo di situazioni a volte quasi criptiche nel ricorrere al grottesco (il segmento con la baronessa interpretata da Isabelle Huppert è forse tra i pochi passaggi poco riusciti). I momenti sbalorditivi non si contano e le invenzioni di regia acquisiscono sempre un precisa funzione espressiva, come nel caso del cammino di Eo nella "selva oscura". Ottimo il finale che gioca a specchio con la conclusione di Bresson: là c'erano degli agnelli che circondavano il cristologico asino morente; qui invece sono dei bovini ad attorniare il protagonista, pronto così a diventare carne da macello. In concorso al Festival di Cannes.
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