Le retour d'Afrique

Le retour d'Afrique

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109

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Regista

Françoise (Josée Destoop) e Vincent (François Marthouret) sono una giovane coppia di Ginevra. Decidono di mollare tutto e trasferirsi ad Algeri, dove un amico li ospiterebbe. Un telegramma di quest’ultimo consiglia loro di aspettare, e l’attesa diventa il fulcro delle loro giornate. 

Un ritorno senza alcuna partenza. La voce narrante lo precisa subito: «È un film con delle parole. A volte è anche un film sulle parole». Ed è proprio un’opera dove la parola sostituisce l’azione, o addirittura dove la parola diventa azione pura, in un contesto che ricorda sia la Nouvelle Vogue che certo teatro dell’assurdo: non c’è nulla oltre all’attendere, in uno spazio rarefatto e immobile dove l’unico movimento possibile è interiore, mai altrove da sé. Coerentemente il film si ferma proprio quando i due protagonisti, decisi ad avere un figlio, stanno per compiere una prima decisione che destabilizza il loro equilibrio fatto di inerzia e tedio. L’eleganza della regia di Tanner si sposa alla perfezione con lo splendido bianco e nero a cura di Renato Berta, e il risultato è un film teorico complesso, a volte troppo intellettualoide ma mai freddo, anzi capace di raccontare con puntualità ed empatia la sfida di due vite che attendono una svolta. Una visione esistenzialista, in cui l’impasse diventa una forma di resistenza, e in cui la facile retorica del viaggio come nuovo inizio e scoperta di sé viene spietatamente disattesa. Nonostante sia solo il terzo film del regista (e non manchi qualche passaggio un po' acerbo), può già essere visto come una summa di tutte le sue inquietudini poetico-politiche, sia precedenti che a venire. Non a caso il fil rouge della pellicola è un poema di Aimé Césaire. A essere indissolubilmente legati alla lucida critica anticolonialista dell’autore martinicano sono i due fulcri tematici dell’opera di Tanner (la poesia è la politica, appunto), qui esplicitamente centrali, dando un ritratto sfaccettato di un’Europa che non sa ancora come approcciarsi a quello che, non senza pregiudizio e snobismo, chiama Terzo Mondo, ma che neanche sembra essere in grado di risolvere le proprie contraddizioni locali. Di disarmante naturalezza le interpretazioni dei due protagonisti, che non fanno che aumentare il magnetismo del film.




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