A Southside Chicago, per contrastare la dilagante violenza che non conosce tregua in quanto a omicidi e sparatorie, alcune donne decidono di mettere in piedi una radicale forma di protesta: uno sciopero totale del sesso da imporre ai propri uomini, finché il conflitto a colpi di armi da fuoco che insanguina questa porzione paradigmatica d’America ai margini non avrà avuto fine.



Mette le cose in chiaro fin dal prologo, Spike Lee con il suo Chi-Raq: una cartina stilizzata degli Stati Uniti d’America con tante miniature di armi giustapposte, a sostituire la riproduzione in scala dei singoli Stati e dei confini che li separano. Accanto a tale immagine dal provocatorio impatto, ecco entrare subito in campo il flow del brano Pray 4 My City di Nick Cannon, i cui versi eloquenti e sferzanti («And y'all mad cause I don't call it Chicago, but I don't live in no fuckin' Chicago, boy I live in Chi-Raq») spiegano cosa voglia dire, nell’America del 2015, essere afroamericani e vivere nelle pieghe vulnerabili di un tessuto urbano e nazionale che, con il tempo, ha interiorizzato sempre di più il proprio razzismo congenito e ampiamente sedimentato, inestirpabile anche in tempi di retorica black e negli anni del primo presidente di colore alla Casa Bianca. Lee suggella un veemente e sentito film che lo riporta a livelli e ambizioni decisamente elevati, parlando della condizione dei neri negli Stati Uniti di oggi con una forza singolare che gli deriva da una messa in scena rutilante, ritmata (anche in senso letterale) e sopra le righe, galvanizzata oltretutto da una colonna sonora strepitosa. Politico e dissacrante, volutamente aperto a sbandamenti e cadute di ritmo e di tono ma sempre in grado di motivare i suoi eccessi, Chi-Raq prende la Lisistrata di Aristofane e trasferisce l’opera del grande commediografo greco nei bassifondi di Chicago, dove, dal 2001 a oggi, sono stati commessi 7356 omicidi, a fronte dei 2349 americani morti in Afghanistan e dei 4424 in Iraq (Chi-Raq è proprio una crasi tra Chicago e Iraq). Numeri impietosi, specchio di un allarme agghiacciante e conclamato, ma Lee evita con maestria recrudescenze di ultrarealismo e opta per una colorata e livorosa idea di cinema che mescola kitsch, indignazione, melodramma, straniamento, coreografie, balletti, dramma processuale, musical, discorsi in camera: tutto e il contrario di tutto, in una coinvolgente giostra policroma che fotografa impietosamente il cuore sanguinante e nerissimo dell’America di oggi e di ieri, brandendo la retorica come uno strumento rivelatorio e illuminante e capovolgendo i potenziali difetti forniti dal taglio propagandistico, declamatorio e predicatorio del film in evidenti e parossistici pregi. Un maestoso Samuel L. Jackson, a mo’ di coro greco, fa da irresistibile narratore, John Cusack in grande spolvero è un predicatore. I primi dieci minuti sono a dir poco pazzeschi; peccato per il vistoso calo di tono nella parte centrale, forse consapevole e voluto ma anche palesemente stonato. Polemiche in America per la rappresentazione non proprio sotto le righe della comunità nera.
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