Paradise: Love
Paradies: Liebe
Durata
120
Formato
Regista
Attirata dalle promesse di svago, spiagge da sogno e sesso facile, la matura austriaca Teresa (Margarete Tiesel) parte alla volta del Kenya, decisa a concedersi più di un'avventura. L'incontro con Munga (Peter Kazungu) sembra aprirle nuove prospettive, ma un'amara delusione è in agguato.
Primo capitolo della trilogia Paradise, seguita da Paradise: Faith (2012) e Paradise: Hope (2013), in cui Ulrich Seidl, anche sceneggiatore con Veronika Franz, tratteggia le derive di un'umanità dolente e miseranda, non risparmiando stoccate feroci a un mood sociale distorto e illusorio. Nessuna speranza di redenzione o rinascita, solo rapporti di forza e prevaricazione ormai imperanti: esemplare, in tal senso, l'iter della protagonista, speranzosa in un futuro roseo e destinata all'umiliazione più bieca. Cupo, amaro, privo di catarsi: il cinema di Seidl, nel bene e nel male, lascia il segno, perché tocca corde profondissime e ancestrali, non risparmiando colpi bassi e mostrando una degenerazione morale e materiale che passa (anche e soprattutto) dal disfacimento corporeo e da una sessualità meccanica e totalmente priva di empatia. Talmente glaciale, con uno stile geometrico calibrato al millimetro, da risultare respingente, e non privo di cadute fragorose (Seidl è il primo a subire la morbosa fascinazione della propria messa in scena): in ogni caso, insieme a Canicola (2001), resta una delle opere più riuscite e suggestive del regista austriaco. Presentato in concorso al Festival di Cannes.
Primo capitolo della trilogia Paradise, seguita da Paradise: Faith (2012) e Paradise: Hope (2013), in cui Ulrich Seidl, anche sceneggiatore con Veronika Franz, tratteggia le derive di un'umanità dolente e miseranda, non risparmiando stoccate feroci a un mood sociale distorto e illusorio. Nessuna speranza di redenzione o rinascita, solo rapporti di forza e prevaricazione ormai imperanti: esemplare, in tal senso, l'iter della protagonista, speranzosa in un futuro roseo e destinata all'umiliazione più bieca. Cupo, amaro, privo di catarsi: il cinema di Seidl, nel bene e nel male, lascia il segno, perché tocca corde profondissime e ancestrali, non risparmiando colpi bassi e mostrando una degenerazione morale e materiale che passa (anche e soprattutto) dal disfacimento corporeo e da una sessualità meccanica e totalmente priva di empatia. Talmente glaciale, con uno stile geometrico calibrato al millimetro, da risultare respingente, e non privo di cadute fragorose (Seidl è il primo a subire la morbosa fascinazione della propria messa in scena): in ogni caso, insieme a Canicola (2001), resta una delle opere più riuscite e suggestive del regista austriaco. Presentato in concorso al Festival di Cannes.