Sangue di condor
Yawar Mallku
Durata
70
Formato
Regista
In un villaggio andino della Bolivia non nascono più bambini. C’è chi inizia a sospettare del Cuerpo del Progreso, associazione statunitense attiva sul territorio anche in ambito medico. La tensione porta la polizia a intervenire con violenza.
L’opera seconda del boliviano Sanjinés è anche il suo film più famoso. Con la differenza di una coralità non ancora del tutto centrale, è un emblematico esempio di quello che sarà il suo cinema successivo: rivoluzionario, di stampo marxista e fortemente ancorato alla cultura andina in contrasto con la fagocitante pressione statunitense e occidentale. I protagonisti sono nativi quechua che vengono ingannati da un’organizzazione governativa fittizia che intenta mettere in atto un programma di eugenetica preventiva, sterilizzando le donne del villaggio. Il fatto viene raccontato tramite flashback, mentre il capo dei rivoltosi sta morendo dissanguato in un ospedale di La Paz davanti agli occhi di moglie e fratello che non hanno i mezzi per pagare l’intervento che potrebbe salvarlo. Si denuncia quindi la presenza statunitense, ma anche le stesse istituzioni boliviane che non riescono ad aiutare realmente la popolazione più bisognosa. Il regista fa un ottimo lavoro nel focalizzarsi sui volti dei suoi protagonisti, mostrando in generale una grande attenzione ai dettagli (le macchine della fabbrica che scandiscono la vita cittadina, le mani intente a manipolare le foglie di coca divinatoria). La sceneggiatura, invece, per la sua non linearità concorre a una gestione della narrazione non sempre del tutto a fuoco. Comunque, un’esemplare pellicola di denuncia, importante anche per l’impatto sociale: due anni dopo la distribuzione, la Bolivia caccerà i Corpi di Pace (non citati apertamente dal film) dal proprio territorio. Presentato in concorso alla 30ª Mostra del Cinema di Venezia, durante un’edizione non competitiva.
L’opera seconda del boliviano Sanjinés è anche il suo film più famoso. Con la differenza di una coralità non ancora del tutto centrale, è un emblematico esempio di quello che sarà il suo cinema successivo: rivoluzionario, di stampo marxista e fortemente ancorato alla cultura andina in contrasto con la fagocitante pressione statunitense e occidentale. I protagonisti sono nativi quechua che vengono ingannati da un’organizzazione governativa fittizia che intenta mettere in atto un programma di eugenetica preventiva, sterilizzando le donne del villaggio. Il fatto viene raccontato tramite flashback, mentre il capo dei rivoltosi sta morendo dissanguato in un ospedale di La Paz davanti agli occhi di moglie e fratello che non hanno i mezzi per pagare l’intervento che potrebbe salvarlo. Si denuncia quindi la presenza statunitense, ma anche le stesse istituzioni boliviane che non riescono ad aiutare realmente la popolazione più bisognosa. Il regista fa un ottimo lavoro nel focalizzarsi sui volti dei suoi protagonisti, mostrando in generale una grande attenzione ai dettagli (le macchine della fabbrica che scandiscono la vita cittadina, le mani intente a manipolare le foglie di coca divinatoria). La sceneggiatura, invece, per la sua non linearità concorre a una gestione della narrazione non sempre del tutto a fuoco. Comunque, un’esemplare pellicola di denuncia, importante anche per l’impatto sociale: due anni dopo la distribuzione, la Bolivia caccerà i Corpi di Pace (non citati apertamente dal film) dal proprio territorio. Presentato in concorso alla 30ª Mostra del Cinema di Venezia, durante un’edizione non competitiva.