Elle veut le chaos
Elle veut le chaos
Durata
105
Formato
Regista
Coralie (Eve Duranceau), rimasta sola con il padre ex-gangster dopo la sopraggiunta follia della madre, combatte contro il contesto della profonda provincia rurale canadese, che pare offrirle solo sofferenza, solitudine, criminalità e tragedia.
Al suo terzo lungometraggio il regista canadese Denis Côté compie un passo in avanti rispetto ai pur interessanti film d’esordio, con un’opera più solida a livello narrativo e meno rarefatta, senza però tradire alcune coordinate del suo cinema: la stilizzazione non lontana da un’idea di sperimentalismo, la visionarietà e la ricerca dell’astrazione. Anche a livello di contenuti tornano i temi più cari al giovane autore: a partire dalla simbiosi tra la condizione di solitudine e disagio dei personaggi con l’ostico ambiente naturale della provincia canadese e un improvviso e drammatico evento che spariglia le carte in tavola. Côté si dimostra in grado di descrivere un’interiorità dolente e di usare l’ambiente come metafora di questa sofferenza e come prigione che impedisce il superamento del trauma. Meno abile è la gestione della materia narrativa e dei numerosi personaggi: l'opera, soprattutto grazie alla splendida fotografia – un bianco e nero a tratti sublime, basti pensare alla scena della carcassa della macchina presa a mazzate – e all’uso delle geometrie dell’inquadratura (il suicidio del vecchio boss tra i campi), convince più per le singole sequenze che per l'insieme. Interessante, in ogni caso, la scelta di lasciare alcuni dei momenti più violenti fuori campo. Pardo d'argento per la miglior regia e menzione speciale della giuria al Festival di Locarno.
Al suo terzo lungometraggio il regista canadese Denis Côté compie un passo in avanti rispetto ai pur interessanti film d’esordio, con un’opera più solida a livello narrativo e meno rarefatta, senza però tradire alcune coordinate del suo cinema: la stilizzazione non lontana da un’idea di sperimentalismo, la visionarietà e la ricerca dell’astrazione. Anche a livello di contenuti tornano i temi più cari al giovane autore: a partire dalla simbiosi tra la condizione di solitudine e disagio dei personaggi con l’ostico ambiente naturale della provincia canadese e un improvviso e drammatico evento che spariglia le carte in tavola. Côté si dimostra in grado di descrivere un’interiorità dolente e di usare l’ambiente come metafora di questa sofferenza e come prigione che impedisce il superamento del trauma. Meno abile è la gestione della materia narrativa e dei numerosi personaggi: l'opera, soprattutto grazie alla splendida fotografia – un bianco e nero a tratti sublime, basti pensare alla scena della carcassa della macchina presa a mazzate – e all’uso delle geometrie dell’inquadratura (il suicidio del vecchio boss tra i campi), convince più per le singole sequenze che per l'insieme. Interessante, in ogni caso, la scelta di lasciare alcuni dei momenti più violenti fuori campo. Pardo d'argento per la miglior regia e menzione speciale della giuria al Festival di Locarno.