Padre (Emmanuel Bilodeau) e figlia (Philomène Bilodeau) vivono quasi totalmente isolati dalla società, escludendo i rapporti di lavoro dell'uomo. La loro stravagante quotidianità viene però interrotta da un incidente.



Al suo quinto lungometraggio di finzione, il canadese Denis Côté raggiunge uno dei suoi risultati più convincenti e compiuti con questo dramma intimista che si trasforma in “giallo morale”, capace di far risaltare la banalità del male nascosta nel profondo di un protagonista all’apparenza solo stravagante. Il pregio principale del film, giocato su una continua ambiguità, è quello di far pensare, nella prima parte, a un personaggio che ha scelto l’isolamento per se stesso e per la figlia perché scosso da qualche trauma ancora da superare, lasciando però, man mano che la narrazione avanza, più di un dubbio su un’interiorità non così positiva come si poteva presumere. Delineando questo ritratto, il regista guarda al cinema dei fratelli Coen (Fargo, 1996, per l’estetica e L’uomo che non c’era, 2001, per la struttura), reso in modo ancor più laconico e distaccato, quasi astratto, meno dichiaratamente beffardo e più ambiguo. Non mancano squarci d’umorismo laconico e la prima parte, più descrittiva, funziona meglio della seconda, dove non manca qualche giro a vuoto. Il risultato complessivo è leggermente altalenante, ma sono diversi gli spunti da ricordare e l’apparato visivo è suggestivo dal punto giusto.
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