Mektoub, My Love: Canto Due

Mektoub, My Love: Canto Due

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134

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Sète, fine estate 1994. Amin (Shaïn Boumedine) si prepara a tornare a Parigi per accompagnare l’amica del cuore Ophélie (Ophélie Bau) ad abortire. Nessuno tranne lui e il cugino Tony (Salim Kechiouche), amante di Ophélie, sanno della gravidanza della ragazza che tra circa un mese dovrebbe sposarsi con il suo fidanzato, pronto a tornare dall’ennesima missione militare. Intanto, però, a Sète arrivano due ricchi americani che lavorano nel mondo del cinema: un potente produttore e la moglie, una giovane attrice già molto nota per alcuni ruoli televisivi. Per Amin potrebbe essere la grande occasione di diventare lo sceneggiatore e regista che vorrebbe, ma il destino ci metterà ancora una volta lo zampino… 

Sembra fotografare direttamente noi, Amin, all’inizio di Mektoub, My Love: Canto Due. Noi spettatori che siamo cambiati a otto anni di distanza da quel magnificato Mektoub, My Love: Canto Uno (2017), presentato alla Mostra di Venezia in concorso. Noi che siamo invecchiati mentre lui e gli altri personaggi della pellicola sono identici, cristallizzati nel tempo: non è però soltanto una questione logica (le riprese di tutti i capitoli di questa saga sono state realizzate in continuità e quindi vediamo le attrici e gli attori com’erano quasi dieci anni prima), ma anche metafisica e interpretativa. Già, perché Mektoub, My Love: Canto Due è un film sul tempo e la sua relatività, un film che ribalta completamente la funzione temporale di Mektoub, My Love: Intermezzo (2019), presentato al Festival di Cannes con una scia di lunghe polemiche, dimostrandoci che quel film era tutt’altro che un “intermezzo” tra questi due canti. Tutto prosegue dalle basi gettate nel Canto Uno, ma i toni sono completamente diversi: là dove c’erano spensieratezza, balli sfrenati, gioia e speranza per il futuro, in questo potentissimo Canto Due la narrazione è invece occupata dalle ombre, dalla malinconia, da costanti presagi di fine che costellano la vicenda. Una fine che poi, naturalmente, non ci sarà, perché anche in questo caso Abdellatif Kechiche – che gira il film con la consueta eleganza e capacità di ottenere il meglio dal suo eccellente cast, che sembra non recitare mai – ci mostra dei frammenti, seppur decisivi, di un’esistenza. La fine dell’estate come diretta armonia del crollo dei sogni e della possibile fuga nei desideri: lo dimostrano gli occhi malinconici dei personaggi in questo film di sguardi prolungati e di mosche che passano sui loro corpi. Kechiche riflette sulla messinscena e sul cinema (bellissimo il duetto in cui viene rifatto Toro scatenato) con Amin osservatore/regista che si trasformerà, in una parte conclusiva tutta da interpretare, in salvatore/protagonista. Raccontare sentimenti così profondi, speranze mescolate a inquietudini è qualcosa di non semplice: Kechiche ci è riuscito, ancora una volta, facendoci sentire parte integrante della storia. Facendoci mangiare in spiaggia, facendoci ballare, facendoci vivere un'estate a Séte nel 1994. Fotografandoci, insomma. Presentato in concorso al Locarno Film Festival 2025.


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