Marina (Claudia Pandolfi) va in vacanza in montagna con il figlio di pochi anni, ospite nella casa del rude Manfred (Filippo Timi). Il bambino rimane ferito e Manfred bolla Marina come una pessima madre, ma tra i due divampa la passione.



Quando la notte, intesa come venir meno di ogni buon senso, colpisce un regista, il risultato non può che essere disastroso: la noia, il greve sensazionalismo psicologico, la pretenziosa ricerca di un bollino d'autorialità e l'ovvietà sono le parole d'ordine, in un film che di difendibile non ha nulla e rasenta di prepotenza lo scult. Lo scontro/incontro tra il misterioso Manfred, cui l'interpretazione legnosa di Filippo Timi dona una patina di ridicolo involontario, e l'instabile Marina è basato su banalità a profusione, alla base di dialoghi che sembrano la parodia del dramma che vorrebbero inscenare, non solo per il contenuto risibile ma, soprattutto, per la loro costruzione artificiosa. Una possibile depressione post-parto, mai curata, diventa a un certo punto motivo di attrazione per un uomo misogino con alle spalle un trauma familiare: nessuna delle due problematiche, però, viene davvero affrontata e il tutto si risolve con una storia d'amore impossibile, lacerante ma poco credibile. Tra le scene imbarazzanti, “svetta” quella conclusiva con il gioco di languidi sguardi da telenovela e un'inquadratura finale da denuncia penale. Presentato in concorso Mostra del cinema di Venezia, dov'è stato sonoramente fischiato.
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