Tabù – Gohatto
Gohatto
Durata
100
Formato
Regista
Giappone, seconda metà dell'Ottocento. È in corso il reclutamento di nuovi soldati da parte di un clan di samurai. Dei due prescelti, uno, Sozaburo Kano (RyÅ«hei Matsuda), è molto avvenente e la sua bellezza causerà uno sconvolgimento profondo, anche erotico, all'interno di quel gruppo chiuso di uomini.
Un ennesimo tabù da abbattere e da infrangere per Nagisa ÅŒshima, il cui ultimo film è ancora una volta un gesto cinematografico liberissimo, che scardina un altro pilastro della cultura giapponese ufficiale come il cameratismo tra samurai e la virilità di un ambiente all'interno del quale poche cose suonerebbero insolite e spiazzanti come un amore omosessuale. Con uno stile più morbido e avvolgente de L'impero dei sensi (1976) e anche del più contiguo Furyo (1983), ma non meno provocatorio, il regista nipponico orchestra un'opera sinuosa e raffinata ma anche tagliente, che palesa senza mezzi termini tutto il suo approccio languido al film di cappa e spada e ne riscrive poeticamente le coordinate, guardando a un mondo che non c'è più, con sensibilità assai moderna. Magniloquente nelle coreografie delle scene d'azione senza per questo sbilanciarsi verso uno sterile e compiaciuto estetismo, il film di ÅŒshima oscilla tra il rimpianto per una giovinezza perduta e la consapevolezza della natura politica, servile, sociale dell'amore. Girato con una disciplina ferrea, ma non per questo esente da accensioni poetiche e momenti di grandissima forza compositiva, a cominciare dal finale di lirica bellezza che contribuisce a rendere l'ultima immagine del film semplicemente indimenticabile. Grande prova di attore del regista Takeshi Kitano. In concorso al Festival di Cannes.
Un ennesimo tabù da abbattere e da infrangere per Nagisa ÅŒshima, il cui ultimo film è ancora una volta un gesto cinematografico liberissimo, che scardina un altro pilastro della cultura giapponese ufficiale come il cameratismo tra samurai e la virilità di un ambiente all'interno del quale poche cose suonerebbero insolite e spiazzanti come un amore omosessuale. Con uno stile più morbido e avvolgente de L'impero dei sensi (1976) e anche del più contiguo Furyo (1983), ma non meno provocatorio, il regista nipponico orchestra un'opera sinuosa e raffinata ma anche tagliente, che palesa senza mezzi termini tutto il suo approccio languido al film di cappa e spada e ne riscrive poeticamente le coordinate, guardando a un mondo che non c'è più, con sensibilità assai moderna. Magniloquente nelle coreografie delle scene d'azione senza per questo sbilanciarsi verso uno sterile e compiaciuto estetismo, il film di ÅŒshima oscilla tra il rimpianto per una giovinezza perduta e la consapevolezza della natura politica, servile, sociale dell'amore. Girato con una disciplina ferrea, ma non per questo esente da accensioni poetiche e momenti di grandissima forza compositiva, a cominciare dal finale di lirica bellezza che contribuisce a rendere l'ultima immagine del film semplicemente indimenticabile. Grande prova di attore del regista Takeshi Kitano. In concorso al Festival di Cannes.