Le vite di diversi personaggi che abitano a Timbuctù, in Mali, si sfiorano senza mai toccarsi davvero. La città è occupata da un gruppo di fondamentalisti islamici che, con regole ferree e barbare, semina il terrore tra gli abitanti.

All'origine c'è un fatto di cronaca: l'amore tra una coppia di ragazzi, non sposati e per questo condannati alla lapidazione. Tipico esempio di cinema impegnato, Timbuktu è il crudo ritratto di una città costretta a subire passivamente e in silenzio le violenze perpetrate da parte di chi ne ha preso il controllo. L'elemento più efficace della pellicola è proprio il contrasto tra questi atti brutali e lo splendore della “città di sabbia”, nominata Patrimonio dell'Umanità dall'Unesco. Eccessivamente prolisso, il film non riesce però a colpire come vorrebbe, a causa di una costruzione didascalica e spesso vittima di voler essere una "opera di denuncia” a tutti i costi. Due sequenze risultano però notevoli nella loro enorme drammaticità: la partita di calcio giocata con un pallone invisibile, e l'agghiacciante scena della lapidazione. Presentato in concorso al Festival di Cannes 2014.
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