Alla morte del direttore di una redazione, il personale pubblica un memoriale che riporta le migliori storie realizzate dal giornale nel corso degli anni: un artista condannato all’ergastolo, rivolte studentesche e un rapimento risolto da un cuoco.

Wes Anderson continua ad alternare animazione e live action concedendosi, tre anni dopo L’isola dei cani (2018), un ritorno alla direzione d’attori in carne e ossa. E lo fa con un film che si configura fin dalle prime battute come una lettera d’amore al giornalismo e al mestiere dei giornalisti, aliena però da qualsivoglia forma di retorica, irrequieta e incline ad alzare a più riprese la posta in palio. I personaggi che gravitano intorno al quotidiano French Dispatch del titolo, articolati in tre distinte linee narrative indipendenti che compongono le varie sezioni del magazine, sono infatti le consuete maschere del cinema del regista, simili a manichini, o ad abitanti di una casa di bambole perfettamente in vitro, eppure dotati di sentimenti e slanci di umanità inattesi che travalicano le cornici andersoniane e gli incasellamenti di scenografie e fondali storici, reinventati da una lente bizzarra e fantasiosa. A colpire più di tutto, in The French Dispatch, è la smagliante autorialità di Wes Anderson, drogata in questo caso da un forsennato approccio che coniuga consueti movimenti sull’asse, inquadrature in split screen a colori e in bianco e nero, ma anche performance fisiche e disegni animati, che entrano in soccorso nell’ultima parte del film per materializzare i momenti più dispendiosi da un punto di vista visivo e spettacolare. Si tratta, a conti fatti, del film più estremo dal punto di vista arthouse che Wes Anderson abbia mai assemblato, il più scatenato e funambolico sul piano delle trovate e il più restio a compromessi narrativi con lo spettatore. I personaggi, incarnati da una parata di star (Bill Murray, Tilda Swinton, Frances McDormand, Benicio Del Toro, Saoirse Ronan, Willem Dafoe e Timothée Chalamet), non si limitano a omaggiare il giornalismo ma anche i fumetti transalpini e il cinema francofono, a cominciare dall’inquadratura iniziale, che cita sfacciatamente Mio zio di Jacques Tati. Tra i vari episodi, che si concludono con un bizzarro necrologio per l’impassibile e rigido editore Arthur Howitzer Jr., interpretato da un Murray che dice solo una frase ai suoi sottoposti («Non piangere»), troviamo: The Concrete Masterpiece, su un pittore rabbioso e criminale (Del Toro), la sua musa (Seydoux) e i suoi mercanti (Brody); Revisioni a un manifesto, con Timothée Chalamet e Frances McDormand alle prese con le rivolte studentesche e la presunta imparzialità di un racconto giornalistico sull’energia febbrile, scomposta e idealista della giovinezza; La sala da pranzo privata del commissario di polizia, con, tra gli altri, Mathieu Amalric e una trama all’insegna di una caustica e stilizzata fusione tra haute cuisine, rapimenti e capovolgimenti di fronte, ora teneri e spiazzanti, ora umorali e indispettiti, andando così a rispecchiare e sintetizzare il senso e il tono di tutta l’operazione. I titoli di coda sono costellati da copertine di giornale molto simili a quelle del New Yorker, ai cui articoli e alle cui firme storiche il film, pur ambientato in Francia, è ispirato (la rivista del titolo è infatti americana ma pubblicata, con una tiratura di tutto rispetto, in una città francese immaginaria del XX secolo, Ennui-sur-Blasé). Inizialmente previsto nell’estate 2020, ha dovuto rimandare più volte la sua data d'uscita fino alla presentazione in Concorso al Festival di Cannes nel luglio 2021.
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