1950, Wichita, minuscolo paese al confine tra il Texas e il Messico. La giovinezza dei ragazzi del posto si consuma tra amori, avventure sessuali, fugaci sortite in Messico e l'incombente Guerra di Corea.



Secondo lungometraggio del regista Peter Bogdanovich e probabilmente il suo miglior film in assoluto. Opera con più livelli di lettura, L'ultimo spettacolo è innanzitutto un grande esempio di realismo cinematografico americano, dove la semplice quotidianità della vita nella provincia texana degli anni '50 diventa, senza colpi di scena e senza una vera e propria trama, una storia appassionante e coinvolgente, con personaggi vivi e indimenticabili e una cura per i dettagli calligrafica (clamorosa la colonna sonora, composta interamente da pezzi country trasmessi realmente dalle radio texane di quegli anni). Se si scava sotto questa piacevolissima superficie, tuttavia, si scopre un nucleo di grande nostalgia per un'epoca fatta di valori ormai impossibili da ritrovare: quella descritta nel film è infatti una generazione di ragazzi che ha schivato di un soffio gli orrori della Seconda guerra mondiale e che ancora doveva scoprire la Corea, una generazione sostanzialmente benestante, campione di un ribellismo dolce e innocuo, lontana anni luce dagli anni '60 e poco interessata alla politica. Ecco dunque che la pellicola diventa la descrizione piena di lacrime di nostalgia per un segmento di tempo, un pacifico atollo di storia americana destinato a essere presto sommerso dai torbidi decenni successivi. A suggellare questa operazione di amarcord, Bogdanovich (che era anche un noto critico cinematografico) inserisce una serie di piccoli riferimenti al cinema di Frank Capra e Howard Hawks, che viveva i suoi tempi migliori proprio nel primo lustro di quel decennio: la scena dell'ultimo spettacolo (che dà il titolo al film) del piccolo cinema di paese che proietta Il fiume rosso (1948) di Hawks è, in tal senso, la sequenza madre della pellicola e, probabilmente, la migliore dell'intera carriera del regista. Grande successo di critica. Lanciò una serie di talentuosi attori destinati ad avere fortune alterne: su tutti, Jeff Bridges. Nove nomination all'Oscar e due statuette vinte: a Ben Johnson e Cloris Leachmann rispettivamente come miglior attore e attrice non protagonisti.
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