Giappone, secondo dopoguerra. Sfuggito a un plotone d'esecuzione che voleva fucilarlo, il traumatizzato Kinji Kameda (Masayuki Mori) vive cercando la totale empatia con il prossimo. Si innamorerà della bella Taeko (Setsuko Hara), creando uno strano triangolo che comprende anche l'ambiguo Akama (Toshir Mifune): tragedia in agguato.

Folgorato dallo scrittore russo Fëdor Dostoevskij, Akira Kurosawa adatta con Eijir Hisaita il suo celebre romanzo omonimo, tentando di delineare la figura di un Candide estraniato dal tempo e dallo spazio. L'esaltazione delle psicologie individuali (la discesa agli inferi di Taeko, condannata a un destino di infelicità) si lega ai temi feticcio del regista (il rapporto allievo-maestro, qui plasmato in una sorta di opposizione speculare tra Kameda e Akami), che struttura l'anomalia del protagonista puntando sul contrasto di classe. Il risultato si rivela inferiore alle aspettative: straordinario l'uso di un paesaggio glaciale, metafora dell'interiorità dei personaggi, e il tratteggio di alcuni momenti memorabili (le allucinazioni di Kameda, che trasforma e plasma il reale deformandolo tramite la propria mente malata), ma lo sviluppo arranca e la forza visionaria dell'immagine non riesce a cancellare un certo senso di retorica melodrammatica. Notevoli, in ogni caso le prove di un cast in stato di grazia. Musiche di Fumio Hayasaka, fotografia di Toshio Ubukata. Scempiato dai produttori, che ne ridussero la durata di quasi un'ora.
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