Il giovane Miguelin (Miguel Mateo Miguelín) lascia la famiglia in un paese di campagna dell'Andalusia per cercare lavoro in città. A Barcellona, quasi per caso, scopre la fascinazione per la corrida e diventa matador. Inizia così la carriera che segnerà il suo destino.

Dopo due film importanti come Salvatore Giuliano (1962) e Le mani sulla città (1963), si apre un periodo diverso per Francesco Rosi, in qualche misura interlocutorio ma non per questo meno interessante. Folgorato dalla Spagna raccontata da Hemingway in Morte nel pomeriggio, Rosi scelse di realizzare un viaggio filmato, a metà strada tra il documentario e la finzione, al centro di quel mistero d'amore e morte che è la corrida. Non a caso incastonato in un prologo e in un epilogo di taglio antropologico che richiamano i riti della Settimana Santa, il film di Rosi, quasi senza una trama vera e propria, procede accostando una serie di riprese di autentiche corride, e ricostruisce le tappe della via crucis laica del torero Miguelin. Soprattutto grazie al suo palpitante realismo, il film vibra di una potenza visiva e di una tensione emotiva mai raggiunta in altri lungometraggi sull'argomento. Straordinarie sono le riprese che l'operatore Pasqualino De Santis riuscì a ottenere con un teleobiettivo da 300mm, di solito adoperato per le riprese delle partite di calcio, ed eccellente è il lavoro di montaggio di Mario Serandrei. La pellicola venne presentata in concorso al 18° Festival di Cannes.
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