Tirador
Tirador
Durata
85
Formato
Regista
Nella baraccopoli suburbana di Quiapo, a Manila, si incrociano le vite di Caloy (Coco Martin), Leo (Nathan Lopez), Rex (Kristoffer King) e Odie (Jiro Manio). Tutti e quattro sopravvivono nell'illegalità, svolgendo attività criminali di taccheggio o di spaccio di droga. Con l'avvicinarsi delle elezioni però anche gli strati più bassi ed emarginati della società hanno diritto di voto e quindi il candidato Tagasa (Arman Reyes) elargisce denaro e favori a tutti in cambio di incondizionato appoggio politico.
Costruito come un finto documentario che “pedina” i propri protagonisti, Tirador – il termine “tiradores” in lingua tagalog fa riferimento ai piccoli ladri che vivono ai margini – illustra la paradossale commistione fra politica, corruzione e fede (il film si svolge durante la Settimana Santa) nelle Filippine contemporanee. Un mosaico articolato e frenetico che prende forma secondo l'estetica del regista Brillante Mendoza: camera a mano, svolgimento corale centripeto ed espunzione di ogni possibile “censura” narrativa. Mendoza manipola il materiale a disposizione con buona consapevolezza, costituendo di fatto un “equivalente urbano” del precedente Manoro (2006). Cambia l'ambientazione – i bassifondi luridi di Manila da un lato, le foreste incontaminate della rurale Pampanga dall'altro – ma non l'assunto di base: una denuncia del sistema sociale e democratico del proprio Paese, una visione “dal basso” del clima economico disperato di una intera nazione. È questa la funzione primaria del cinema per il cineasta originario di San Fernando: la descrizione della quotidianità attraverso uno sguardo incontaminato verso il reale, una ricerca serrata di documentazione senza filtri che assomiglia paurosamente (e volutamente) alla pornografia e a un sordido voyeurismo. Il risultato è in questo caso funzionale, a tratti autocompiaciuto e un po' furbetto, ma comunque capace di colpire.
Costruito come un finto documentario che “pedina” i propri protagonisti, Tirador – il termine “tiradores” in lingua tagalog fa riferimento ai piccoli ladri che vivono ai margini – illustra la paradossale commistione fra politica, corruzione e fede (il film si svolge durante la Settimana Santa) nelle Filippine contemporanee. Un mosaico articolato e frenetico che prende forma secondo l'estetica del regista Brillante Mendoza: camera a mano, svolgimento corale centripeto ed espunzione di ogni possibile “censura” narrativa. Mendoza manipola il materiale a disposizione con buona consapevolezza, costituendo di fatto un “equivalente urbano” del precedente Manoro (2006). Cambia l'ambientazione – i bassifondi luridi di Manila da un lato, le foreste incontaminate della rurale Pampanga dall'altro – ma non l'assunto di base: una denuncia del sistema sociale e democratico del proprio Paese, una visione “dal basso” del clima economico disperato di una intera nazione. È questa la funzione primaria del cinema per il cineasta originario di San Fernando: la descrizione della quotidianità attraverso uno sguardo incontaminato verso il reale, una ricerca serrata di documentazione senza filtri che assomiglia paurosamente (e volutamente) alla pornografia e a un sordido voyeurismo. Il risultato è in questo caso funzionale, a tratti autocompiaciuto e un po' furbetto, ma comunque capace di colpire.