Witold (Jonathan Genet) e Fuchs (Johan Libéreau), due ragazzi alla ricerca del proprio destino, si ritrovano a passare qualche giorno in una misteriosa pensione familiare abitata da un gruppo di persone a dir poco bizzarro. La loro permanenza è funestata da una serie di presagi nefasti.

A quindici anni di distanza da La fidélité (2000), Andrzej Żuławski torna a lavorare per il cinema prendendo spunto da un romanzo di Witold Gombrowicz. La sua cifra stilistica e le sue ossessioni (quanto somiglia la bella Victória Guerra alla Isabelle Adjani di Possession, cult del regista del 1981?) ci sono tutte, ma il discorso intellettuale (il tema del caos e del disordine, della perfezione e dell'imperfezione, simboleggiate dalle differenti bocche delle due ragazze della pensione) si perde presto dietro una marea di citazioni e riferimenti che nascondono soltanto l'inconsistenza di un'operazione che sa troppo di già visto, sterile e grossolana nella sua messinscena forzatamente anti-narrativa e contorta. Così come il suo protagonista, Żuławski gira presto a vuoto, risultando più irritante (imbarazzanti i titoli di coda che “svelano” la finzione filmica) che suggestivo, più confuso che in grado di far riflettere. Il suo è, ormai, un surrealismo (se così si vuole chiamare) inutilmente autocompiaciuto e spesso sgradevole. Tra gli ulteriori elementi negativi, la fiacca colonna sonora e il cast altalenante.
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