In un villaggio rurale dell'Africa subsahariana la vita scorre tranquilla e sempre uguale da ormai diversi secoli. Le donne vanno a caccia e raccolgono i frutti della foresta, gli uomini si occupano del villaggio. Ci si ama, ci si lascia, si litiga, si fanno magie e si prega per la pioggia. Ma la modernità è in agguato per mezzo delle multinazionali del legno e la foresta viene disboscata mettendo in pericolo la vita nel villaggio, i cui abitanti a poco a poco iniziano ad andarsene. Inizia così un processo di urbanizzazione e assimilazione dei costumi occidentali.

Iosseliani vuole raccontare un mondo che sta scomparendo, senza però rinunciare al suo tocco lieve e ironico. È significativo che uno degli occidentali che assistono da lontano all'incendio sia interpretato proprio dal regista: viene messo in scena un atto di accusa verso il disinteresse occidentale per la (felice) indipendenza dei “selvaggi”, e insieme una dichiarazione di poetica, un modo per sottolineare il distacco che il pubblico e il narratore hanno dalla storia. Recitato quasi tutto in lingua indigena, il film è scandito dai cartelli tipici dal cinema muto, che descrivono e sottolineano i momenti più importanti di una pellicola che ha notevoli tocchi surreali e favolistici, ma anche un simbolismo troppo esplicito e un messaggio complessivo un po' didascalico. Funziona a metà, ma resta un tassello importante nella carriera del suo autore. Gran premio speciale della giuria alla Mostra del Cinema di Venezia.
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