Calcutta

Louis Malle commenta, scarnamente, le immagini del suo reportage girato a Calcutta nel febbraio del 1968. Sullo schermo si susseguono manifestazioni politiche, rituali religiosi, lavoro e intrattenimento, ma soprattutto la quotidianità di una popolazione variegata, frammentata, conflittuale e divisa non solo dalle caste ma anche dai divari economici, dalle malattie, dal credo e dalla pesante eredità coloniale.

Nel girare un documentario tradizionale sulla megalopoli indiana, Malle decide di evitare il più possibile l'interpretazione forzata delle situazioni mostrate, delle loro cause e delle conseguenze. Pur con poche e misurate parole non riesce però a nascondere l'indignazione di fronte alle bidonville in pieno centro, agli slum, ai lebbrosari, ai lazzaretti e ghetti di vario tipo. Uno scandalo che va di pari passo con la constatazione che la politica è manovrata dall'alto e da fuori (con l'esistenza ad esempio di due partiti comunisti, di destra e di sinistra) con lo scopo di impedire la coesione sociale: un obbiettivo cui sembrano funzionali caste e tensioni tra hindu e musulmani. Le cerimonie che finiscono con l'abbandono nel fiume delle statue, così come i vezzi occidentali dei ricchi, sembrano suggerire che la vera chiave di lettura sia l'indifferenza con cui la popolazione sembra accettare ogni avvenimento, nella convinzione della transitorietà della vita presente. Nella seconda parte, in cui sono protagonisti malati ed esclusi, si corre forse il rischio di uno sguardo troppo “occidentale”, anche se il regista si ferma sempre un momento prima del ricatto sentimentale. Un'opera ancora oggi interessante nella sua libertà e semplicità, che però mal si adatta al grande schermo: non a caso dal suo girato l'autore trasse anche una serie TV intitolata L'Inde fantôme (1969).