La morte di Wilfred Owen (Nathaniel Parker), soldato neanche trentenne, fa da collante a una sinfonia sperimentale di filmati della Seconda guerra mondiale e della guerra in Afghanistan, cui a sua volta è sottesa la musica del War Requiem di Benjamim Britten.

Un film lacerato, dichiaratamente a brandelli, molto sentito dall'autore come in fin dei conti lo è la quasi totalità della sua filmografia più estrema dal punto di vista formale e linguistico: una parte della sua produzione che pare nascere sempre e comunque dall'urgenza di mettere a nudo i propri fantasmi interiori in forma di diario intimo e di confessione a cuore aperto, anche laddove il caos indistinto e multiforme del materiale utilizzato lascerebbe intendere ambizioni più titaniche e di tipo diverso. Stranamente sommesso per essere una denuncia, una contraddizione apparente che rischia seriamente di sottrarre forza all'indignazione più che evidenziare in positivo la superiore e distaccata atarassia dell'autore rispetto alle cose del mondo. A partire dalle premesse sferzanti si giunge insomma a esiti più calmierati e modesti, vanificando più che in parte il potenziale in ballo.
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