Nantes, fine degli anni Trenta. Il piccolo Jacquot (Phillippe Maron), durante l'occupazione nazista, sogna di fare cinema a Parigi. Il padre (Daniel Dublet) vorrebbe per lui un'altra carriera, ma Jacquot è agguerrito: riuscirà a coronare il suo sogno.

Delicato omaggio di Agnès Varda alla persona – e all'opera – del marito regista Jacques Demy, che appare nel finale e che sarebbe morto poco prima della diffusione del film. Quello dell'autrice francese è realmente cinema puro: Garage Demy fa i conti con la settima arte, con la Storia, con i mutamenti fisici e sentimentali. Nasce da un sensazionale atto d'amore, e si vede: Varda non riesce a mantenere alcun distacco dalle vicende del protagonista Jacquot e lo ammette fin dalle prime inquadrature. Quella che racconta è una storia che la riguarda, un atto civile e sentimentale da cui non vuole essere separata. Un involontario film-testamento, una texture apologetica di due lirismi, quello vardiano e, inevitabilmente, quello contaminato dal musical di Demy, autore di importanti pellicole come Les parapluies de Cherbourg (1964) o Les demoiselles de Rochefort (1967). Il risultato è originale, toccante, notevolissimo.



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