Un pubblico ministero (Burt Lancaster) è incaricato delle indagini sulla morte di un giovane portoricano cieco. Gli assassini sono tre giovani di origini italiane, membri di una gang, ma la verità è ben più complessa di quel che appare.



Film di denuncia, Il giardino della violenza utilizza stili e procedimenti di certo cinema europeo (a cominciare dagli attori non professionisti sdoganati dal Neorealismo) per raccontare la realtà delle strade delle periferie e dei ghetti urbani americani, nello specifico Harlem, New York e la violenza dei giovanissimi membri di bande connotate razzialmente in perpetua guerra tra loro. Gli intenti sono lodevoli e la regia di Frankenheimer è matura e raffinata (buona la fotografia di Lionel Lindon), ma la sensazione è quella che il film vesta Hollywood, con i suoi eroi senza macchia capaci di realizzarsi nonostante le origini e di lottare per la verità e la giustizia (il personaggio di Lancaster), di una patina documentaria che alla fine muta la confezione, contrabbandandosi per quello che non è: un film realista, un documentario, un’affermazione politicamente significativa. Si poteva fare di meglio, anche a causa di un ritmo un po’ altalenante.
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