Le memorie di Federico Fellini, che torna nella Rimini della sua infanzia e ne riscopre le luci, i colori, i suoni e l'umanità. Racconto sull'infanzia reinventato da parte di un artista che per sua stessa ammissione non sapeva più distinguere tra realtà accaduta e finzione immaginata, e che lascia che la commistione tra le due cose prenda meravigliosamente il sopravvento.

Gli anni del fascismo, la scuola e gli innumerevoli tic di alunni e docenti («Bella la lingua greca, vero?» «Ostia!»), il Transatlantico Rex e la sospensione dell'incredulità dinanzi a esso. E ancora le veraci figure femminili come la Gradisca e la Tabaccaia, sogni erotici generazionali, simboli di una generosità narrativa e creativa oltre che femminea e curvilinea. Per non parlare dello zio e del «Voglio una donna!» urlato dalla cima di un albero, o della consueta tensione del cineasta verso il girotondo riassuntivo. Amarcord è la quintessenza di un regista che elabora se stesso e il proprio passato immaginandolo a ruota libera. E Cinecittà è ancora una volta l'unico tornio possibile attraverso il quale plasmare l'argilla dei propri sogni, l'inizio e la fine di tutto. Un film di grazia nobilissima, nel divertimento come nella rivisitazione storica, nella pernacchia come nel languore. Non deve stupire affatto se, per molti, è il più grande film di Fellini dai tempi di 8 ½ (1963). Oscar al miglior film straniero.


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