Federico Fellini racconta Roma in una sorta di documentario spurio che forza i confini del genere: una pantagruelica coda sul Gra che termina dinanzi al Colosseo, l'avanspettacolo, una passerella ecclesiastica. Immagini terrorizzate da una Città Eterna per l'occasione deformata e mostruosa.

Quello tra il regista e la Capitale è un incontro già consumato in passato, che qui si rinnova in uno degli affreschi più magniloquenti e generosi del secondo Fellini. Roma è il film felliniano più metafisico: la macchina da presa vi diviene mezzo aereo e sfrontato, una specie di grande occhio carrucolare simile a una gru, in grado di sporgersi e spargersi ovunque. Si respira l'odore di zolfo di una Roma altra, in cui i balconi, le terrazze, le piazze sono mondi che danno su altri mondi e i gruppi umani sembrano sempre e comunque adunate oceaniche. La scena del Gra è un orrido ipertesto di rumori e contesti respingenti e ben rende la cifra stilistica del film: non tutto arriva a destinazione (l'esubero, d'altronde, è notevole), ma la visione d'insieme è spiazzante e fascinosa. I romani, invece, appaiono indifferenti, come un popolo di gatti sornioni, alla fine meno cattivi e maligni del modo in cui talvolta li si rappresenta, come disse una volta Fellini stesso in un'intervista a Enzo Biagi. Memorabile frase di Gore Vidal, secondo cui Roma è al contempo sede di Chiesa, Governo e cinema: tutte e tre le cose generano illusioni. Apparizione di Anna Magnani, che in mano a Fellini è bella come non lo è mai stata.


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