Algeri, 1938. Meursault (Benjamin Voisin), un tranquillo e modesto impiegato sulla trentina, partecipa al funerale della madre senza versare una lacrima. Il giorno dopo inizia una relazione occasionale con Marie (Rebecca Marder), una collega, e torna rapidamente alla solita routine. Ben presto, però, la sua vita quotidiana è sconvolta da un vicino che lo trascina nei suoi loschi affari, finché su una spiaggia, in una giornata torrida, si abbatte la tragedia.

Con un’operazione tanto ambiziosa nelle premesse quanto inevitabilmente esposta al rischio di facili scivoloni, François Ozon, giunto al suo ventiquattresimo lungometraggio, affronta la sfida di adattare per il grande schermo uno dei romanzi più celebri e complessi della letteratura mondiale: Lo straniero di Albert Camus, opera monumentale già trasposta al cinema da Luchino Visconti. Pur intervenendo con qualche modifica al testo di riferimento, Ozon decide di rimanere ancorato al cuore dell’opera camusiana, mantenendo l’intreccio tra le tematiche esistenzialiste che lo percorrono: dalla solitudine radicale del protagonista alla sua glaciale indifferenza verso gli altri, passando per il rifiuto del libero arbitrio e del perdono di Dio, fino alla consapevolezza della vita come un’esperienza assurda e priva di alcun significato, segnata dal contrasto tra il bisogno umano di senso e l'indifferenza del mondo. Accanto a questo nucleo tematico, il regista di Les temps qui reste (2005), con grande spirito critico e con un’operazione che ricorda per certi aspetti quella fatta in Mon Crime (2023), introduce una rilettura del testo che apre a nuove prospettive: fin dalla primissima sequenza del film (un finto documentario che naturalizza ed elogia l'oppressione e il potere coloniale francese in Algeria), emerge, infatti, un’importante riflessione in chiave post-colonialista destinata ad attraversare l’intero film. Ozon dedica consapevolmente uno spazio e un’identità di sguardo propri al popolo algerino, per un contesto sociopolitico che acquista, finalmente, un ruolo di primissimo piano nell’economia dell’opera. In questa scelta, però, si riflette anche una dimensione più intima da parte del regista. Il film, infatti, è anche un affondo personale nella vita della famiglia dello stesso Ozon, il cui nonno materno ricopriva il ruolo di giudice istruttore in Algeria da cui ripartì verso la Francia continentale nel 1956, in seguito a un attacco subito dalla popolazione indigena. Nonostante l’operazione goda di una sorprendente coerenza tematica, a rubare maggiormente l’occhio sono (come spesso accade nella filmografia del regista francese) l’elegante messa in scena in bianco e nero e il ricercato gusto formale con cui Ozon costruisce ciascuna delle sue inquadrature, talvolta lasciandosi andare a una certa leziosità ma senza mai perdere il controllo delle immagini. Alcuni passaggi, soprattutto nella parte iniziale, risultano alquanto prolissi e ripetitivi ma si tratta di limiti che non compromettono più di tanto la forza e l’importanza complessiva del progetto, ulteriore tassello in una ricchissima e variegata carriera artistica. Presentato in concorso alla Mostra di Venezia.

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