Interno di un convento
Durata
95
Formato
Regista
In un convento italiano, le tentazioni della carne si insinuano subdolamente – e con risvolti tragici – negli animi delle giovani suore che lo abitano, nonostante la ferma opposizione della madre badessa (Gabriella Giacobbe).
Ispirato a Passeggiate romane (1829) di Stendhal, Interno di un convento è forse una delle opere più indicative per sintetizzare la poetica e lo stile del suo autore, il polacco Walerian Borowczyk. L'erotismo, l'estasi e la giustapposizione di valori che partono dalla fede e giungono all'orgasmo abbracciano sfumature e riflessioni pop – le suorine sono tutte bellissime, con il rossetto e portano i tacchi – che risuonano nei movimenti, nei pensieri e nei fremiti eccitati delle protagoniste. Che poi il film abbia un peso specifico minimo, che si conceda prurigini eccessive, attrici non sempre all'altezza (compresa Ligia Branice, compagna del regista), se si esclude Gabriella Giacobbe (1923-1979), e momenti di involontario camp – con vigorose inclinazioni trash – è altro discorso. Borowczyk lo sa, e si culla nella baraonda di percezioni corporee e culturali che è in grado di generare, a prescindere dal risultato finale – invero mediocre. In più d'un momento, però, il film riesce a turbare; e nella sequenza del trasporto dei cadaveri di due personaggi-chiave, si prova un momento di credibile, realissimo, sconforto.
Ispirato a Passeggiate romane (1829) di Stendhal, Interno di un convento è forse una delle opere più indicative per sintetizzare la poetica e lo stile del suo autore, il polacco Walerian Borowczyk. L'erotismo, l'estasi e la giustapposizione di valori che partono dalla fede e giungono all'orgasmo abbracciano sfumature e riflessioni pop – le suorine sono tutte bellissime, con il rossetto e portano i tacchi – che risuonano nei movimenti, nei pensieri e nei fremiti eccitati delle protagoniste. Che poi il film abbia un peso specifico minimo, che si conceda prurigini eccessive, attrici non sempre all'altezza (compresa Ligia Branice, compagna del regista), se si esclude Gabriella Giacobbe (1923-1979), e momenti di involontario camp – con vigorose inclinazioni trash – è altro discorso. Borowczyk lo sa, e si culla nella baraonda di percezioni corporee e culturali che è in grado di generare, a prescindere dal risultato finale – invero mediocre. In più d'un momento, però, il film riesce a turbare; e nella sequenza del trasporto dei cadaveri di due personaggi-chiave, si prova un momento di credibile, realissimo, sconforto.