Primi del ‘900, India. Continuano le avventure di Seetha (Debra Paget) e dell'architetto tedesco Berger (Paul Hubschmid), in fuga dal feroce marajà Chandra (Walter Reyer) innamorato della giovane danzatrice e disposto a tutto pur di strapparla dalle braccia dell'europeo.

Dopo La tigre di Eschnapur, dello stesso anno, secondo capitolo del dittico avventuroso girato da Fritz Lang appena tornato in Germania Ovest dopo l'esperienza in America. Rispetto al primo episodio, predominano gli scenari cupi, oscuri, con un ribaltamento dell'esotismo estivo e orientalista proposto in precedenza; intatto, invece, è l'approccio proto-autoriale al genere avventuroso, con i personaggi ridotti a maschere quasi brechtiane, senza psicologia e senza emozioni, con l'atmosfera à la Sandokan resa di proposito artefatta e decorativa. Grande successo commerciale, come il primo episodio venne stroncato dalla critica al momento dell'uscita, per poi venir rivalutato negli anni '60 e '70 da registi come Jean-Luc Godard e dalla critica accademica. I due film, della durata complessiva di circa 200 minuti, per il mercato americano vennero fusi in un'unica pellicola di 95 minuti nota come Journey to the Lost City (1960).
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