
Il deserto rosso
Premi Principali

Leone d'oro alla Mostra del Cinema di Venezia 1964
Durata
117
Formato
Regista
Giuliana (Monica Vitti), moglie di un industriale, è vittima di nevrosi e inquietudini esistenziali. Neanche la relazione con Corrado (Richard Harris), collega del marito Ugo (Carlo Chionetti), che in un primo momento sembra comprendere i suoi sentimenti, riesce a colmare il suo vuoto interiore.
Primo film a colori per Antonioni e ideale prolungamento della "trilogia della incomunicabilità" composta da L'avventura (1960), La notte (1961) e L'eclisse (1962). Il nucleo tematico è ancora una volta quello della crisi delle relazioni affettive nella società contemporanea, nuovamente inscritto dentro la psicologia di un personaggio femminile interpretato da Monica Vitti. Il regista ferrarese si spinge ancora oltre nella rarefazione della sua poetica, orientata qui a rendere centrale il rapporto dialettico tra persone e paesaggio: in una plumbea Ravenna post-industriale che ricorda gli scenari de Il grido (1957), la disumanizzazione dei luoghi è connessa in maniera biunivoca all'aridità interiore dei personaggi. Il ritmo lentissimo e l'ostentata contemplazione dei "luoghi dell'anima", secondo un'esemplare visione autoriale, rendono la pellicola una delle opere più ostiche di tutta la carriera di Antonioni. Ma la ricerca formale raggiunge vette che non hanno paragoni nel panorama cinematografico italiano, e le sperimentazioni cromatiche operate dal regista e dal direttore della fotografia Carlo Di Palma sono entrate (a ragione) nella storia del cinema. Il tentativo di rendere nei dialoghi (di Antonioni e Tonino Guerra) l'emotività disturbata della protagonista, però, rischia di scivolare con qualche battuta nell'astruso, eccedendo in qualche stucchevole psicologismo. Leone d'oro e Premio FIPRESCI alla Mostra del Cinema di Venezia.
Primo film a colori per Antonioni e ideale prolungamento della "trilogia della incomunicabilità" composta da L'avventura (1960), La notte (1961) e L'eclisse (1962). Il nucleo tematico è ancora una volta quello della crisi delle relazioni affettive nella società contemporanea, nuovamente inscritto dentro la psicologia di un personaggio femminile interpretato da Monica Vitti. Il regista ferrarese si spinge ancora oltre nella rarefazione della sua poetica, orientata qui a rendere centrale il rapporto dialettico tra persone e paesaggio: in una plumbea Ravenna post-industriale che ricorda gli scenari de Il grido (1957), la disumanizzazione dei luoghi è connessa in maniera biunivoca all'aridità interiore dei personaggi. Il ritmo lentissimo e l'ostentata contemplazione dei "luoghi dell'anima", secondo un'esemplare visione autoriale, rendono la pellicola una delle opere più ostiche di tutta la carriera di Antonioni. Ma la ricerca formale raggiunge vette che non hanno paragoni nel panorama cinematografico italiano, e le sperimentazioni cromatiche operate dal regista e dal direttore della fotografia Carlo Di Palma sono entrate (a ragione) nella storia del cinema. Il tentativo di rendere nei dialoghi (di Antonioni e Tonino Guerra) l'emotività disturbata della protagonista, però, rischia di scivolare con qualche battuta nell'astruso, eccedendo in qualche stucchevole psicologismo. Leone d'oro e Premio FIPRESCI alla Mostra del Cinema di Venezia.