Les destinées sentimentales
Les destinées sentimentales
Durata
180
Formato
Regista
Jean (Charles Berling) e Pauline (Emmanuelle Béart) fanno conoscenza al ballo di Barbazac e s'innamorano. La differenza d'età e le barriere sociali sembrano però invalicabili, perché lei ha soltanto vent'anni mentre lui, pastore protestante, è già sposato e ha una famiglia. Una storia d'amore impossibile ma capace di resistere alle avversità, sullo sfondo della Grande Guerra.
Tratto da un romanzo di Jacques Chardonne, è un inconsueto, inclassificabile film in costume probabilmente in bilico tra scivolone d'autore e capolavoro assoluto, capace però di una tale forza espressiva da spingere costantemente l'asticella verso il secondo dei due poli. Olivier Assayas, ancor prima che un regista, è stato un critico, incarnando uno dei rarissimi casi, persistenti a cavallo tra la fine del Novecento e l'inizio del nuovo millennio, in cui le due attività riescono a coesistere senza produrre laceranti scissioni d'identità e personalità. E questo film evidenzia benissimo tale aspetto, perché l'approccio del regista è quello apocrifo della riscrittura e della rivisitazione personale, proprio ciò che un bravo critico degno di tale nome, e soprattutto rilevante nello scacchiere culturale, dovrebbe attuare con le pellicole che attraversa e analizza. Assayas, allo stesso modo, passa indenne attraverso tre ore di film sulla Francia protestante dei primi tre decenni del Novecento mantenendo immutate acutezza e fascino, supportato da ottime prove d'attori e dando luogo a un lungometraggio forse imperfetto ma vitalissimo. Sospeso, come si è giustamente scritto, tra porcellana e cognac, con punte eccezionali di languore («L'amore...non c'è nient'altro che l'amore nella vita...niente» è una delle frasi che fa da commiato struggente all'opera).
Tratto da un romanzo di Jacques Chardonne, è un inconsueto, inclassificabile film in costume probabilmente in bilico tra scivolone d'autore e capolavoro assoluto, capace però di una tale forza espressiva da spingere costantemente l'asticella verso il secondo dei due poli. Olivier Assayas, ancor prima che un regista, è stato un critico, incarnando uno dei rarissimi casi, persistenti a cavallo tra la fine del Novecento e l'inizio del nuovo millennio, in cui le due attività riescono a coesistere senza produrre laceranti scissioni d'identità e personalità. E questo film evidenzia benissimo tale aspetto, perché l'approccio del regista è quello apocrifo della riscrittura e della rivisitazione personale, proprio ciò che un bravo critico degno di tale nome, e soprattutto rilevante nello scacchiere culturale, dovrebbe attuare con le pellicole che attraversa e analizza. Assayas, allo stesso modo, passa indenne attraverso tre ore di film sulla Francia protestante dei primi tre decenni del Novecento mantenendo immutate acutezza e fascino, supportato da ottime prove d'attori e dando luogo a un lungometraggio forse imperfetto ma vitalissimo. Sospeso, come si è giustamente scritto, tra porcellana e cognac, con punte eccezionali di languore («L'amore...non c'è nient'altro che l'amore nella vita...niente» è una delle frasi che fa da commiato struggente all'opera).