Giappone, 1573: la guerra civile dilania il Paese, creando scontri e rivalità tra i diversi clan. Il valoroso Shingen Takeda (Tatsuya Nakadai), che mira alla conquista di Kyto e all'unificazione territoriale, è ferito a morte. Per non diffondere il panico, viene scelto un sosia (Nakadai) che faccia le sue veci: il ruolo interpretato dall'impostore diventerà più vero del vero, condizionandone pensiero e comportamenti.

Supportato dalla produzione americana (George Lucas e Francis Ford Coppola), Akira Kurosawa, anche sceneggiatore con Masato Ide, confeziona un magistrale dramma storico a sfondo psicologico, ispirandosi alle faide politiche che dominarono il Giappone durante il XVI secolo. Sorta di preludio allo splendido Ran (1985), che il regista posticipò per mancanza di fondi, Kagemusha – L'ombra del guerriero scivola dal realismo al volo pindarico, delineando la tragedia di un uomo che perde la propria identità-ombra per assumerne un'altra (ma «l'ombra non può esistere senza la persona»). “La vita è sogno”, direbbe Pedro Calderón de La Barca: l'esistenza non è altro che illusione e la recita del kagemusha si trasforma in un dualismo tra realtà e finzione che si estende alla rappresentazione sul grande schermo, con più di un riferimento alla metacinematografia. Strutturalmente limpido e definito (netta la divisione tra le singole vicende dei personaggi), il film trova pieno compimento nella tecnica sopraffina: Kurosawa continua la sua sperimentazione sul colore (iniziata con Dodes'ka-den, 1970), tratteggiando sagome scure su sfondi accecanti che trovano supremo compimento nelle sequenze oniriche (il sosia sperduto in ambientazioni irrealmente fosforescenti, perseguitato dall'incubo del suo indomito predecessore) e strutturando scene di battaglia che si rivelano epiche. Un elogio senza tempo al codice di comportamento orientale, che definisce la statura morale del guerriero («Veloce come il vento, silenzioso come una foresta, feroce come il fuoco, immobile come una montagna»), ma anche un affresco sull'inevitabile crudeltà dell'esistenza: lucido, maestoso, ipnotico, imperdibile. Molte le sequenze da antologia: tra le tante, spicca lo scontro finale, giocato sul sonoro o sulla sua totale assenza, che affida all'espediente del ralenti il compito di enfatizzare il senso di sospensione che segue il massacro. Trascinanti musiche di Shinichir Ikebe, fotografia di Takao Sait e Shji Ueda. Candidato a due Oscar: miglior film straniero e scenografie.
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