Giappone, XVI secolo. Assediati dai briganti che depredano e distruggono le campagne, alcuni disperati contadini decidono di chiedere aiuto ai guerrieri samurai. Riusciranno ad assoldarne sette (Takashi Shimura, Isao Kimura, Yoshio Inaba, Daisuke Kat, Minoru Chiaki, Seiji Miyaguchi, Toshir Mifune), ingaggiando una battaglia senza esclusione di colpi che diverrà occasione per una nuova consapevolezza.



Maestoso affresco epico, I sette samurai è l'opera che ha contribuito a consacrare definitivamente Akira Kurosawa nel panorama cinematografico internazionale. Sceneggiato dal regista con Shinobu Hashimoto e Hideo Oguni, il film si ispira alla storicizzazione romanzata del jidai-geki (tradizione artisticamente radicata nella cultura nipponica), superandola in corsa e approfondendo le caratterizzazioni dei singoli personaggi, che si fanno metafora di tratti universali: la saggezza del mentore, l'ingenuità dell'allievo, il distacco dell'esperto stratega, la spensieratezza del guerriero burlone, le riflessioni solitarie e catartiche dell'adamantino asceta. A spiccare prepotente è l'ambiguo Kikuchiyo (interpretato da Toshir Mifune), aspirante samurai figlio di contadini in bilico tra due mondi («Chi ha reso i contadini così rapaci? Voi, dannati samurai, che bruciate villaggi e raccolti, violentate le loro donne, razziate le loro provviste!»), emblema di quell'insanabile contrasto (e del successivo, utopico riavvicinamento) tra classi sociali agli antipodi per abitudini e convinzioni. Apologo umanitario di magistrale potenza emozionale, rischiarato da lampi di pungente ironia, la pellicola procede con una linearità di rara coerenza, elevando a protagonista assoluto l'universo rurale, con le sue miserie, le ipocrisie, le sofferenze, le contraddizioni (lo sgradevole e codardo Yohei, interpretato da Bozuken Hidari): il risultato è un capolavoro senza tempo, che mira alla rappresentazione della fratellanza archetipica («Chi difende tutti difende se stesso, chi pensa solo a se stesso si distrugge»), stigmatizzando nel memorabile finale quel afflato empatico inseguito da Kurosawa durante tutta la sua carriera. Da antologia le sequenze della battaglia, scandite da un montaggio di incredibile modernità, e commovente tratteggio della figura femminile (incarnata dalla fragile Shino alias Keiko Tsushima), sedotta da un samurai e vessata da un padre ossessivo. Da evitare la versione scempiata dai produttori e ridotta a 160 minuti. Presentato in concorso alla Mostra del Cinema di Venezia, dove vinse il Leone d'argento, e candidato a due premi Oscar (scenografia e costumi). Omaggiato, tra gli altri, da John Sturges ne I magnifici sette (1960).
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