I bassifondi
Donzoko
Durata
137
Formato
Regista
Nel miserabile ostello gestito dall'usuraio Rokubei (Ganjir Nakamura) e dalla moglie Osugi (Isuzu Yamada), una varia umanità trascina il proprio quotidiano tra drammi e disincanto. Un attore alcolizzato (Kamatari Fujiwara) progetta un utopico ritorno sulle scene; il ladro Sutekichi (Toshir Mifune) cerca di conquistare Okayo (Kyko Kagawa), sorella di Osugi; la prostituta Osen (Akemi Negishi) sogna l'amore; il samurai Tonosama (Minoru Chiacki) ironizza sulla vita per esorcizzare la propria inettitudine; il compulsivo fabbro Tomekichi (Eijir Tno) non si accorge che la consorte Asa (Eiko Miyoshi) sta morendo; il giocatore Yoshisaburo (Kji Mitsui) vive scetticamente giorno per giorno. L'arrivo del pellegrino Kahei (Bokuzen Hidari) porterà l'illusione del cambiamento.
«C'è la gente, e ci sono gli uomini». Akira Kurosawa adatta (con la collaborazione di Hideo Oguni) la pièce di Maksim Gor'kij L'albergo dei poveri, già trasposta nel 1936 da Jean Renoir (Verso la vita). L'impianto sociologico della materia di base viene riletto e trasformato dal regista giapponese, che enfatizza la componente esistenziale (centro assoluto della sua visione autoriale) ed esalta le psicologie dei singoli personaggi, empatizzando con le desolazioni connaturate alla stessa umanità. Stilisticamente asciutto e rigoroso, strutturato in chiave realista (la macchina da presa registra senza sbavature le azioni di coloro che popolano il dormitorio), il film testimonia la predilezione di Kurosawa per i derelitti (basti pensare allo splendido Dodes'ka-den, girato nel 1970) e la profonda solidarietà che contraddistingue il suo cinema («Consolare la gente non fa mai male»): non a caso, a emergere prepotente è il personaggio del filosofo Kahei, che tenta di donare conforto a chiunque ne abbia bisogno. Coerente, partecipe, a tratti straziante, in perfetto equilibrio tra farsa e tragedia: un'opera sentita e formalmente ineccepibile (straordinaria la fotografia di Kazuo Yamasaki), appena un po' appannata da un certo immobilismo dovuto alla natura teatrale del soggetto. Cast semplicemente superbo. Musiche di Masaru Sat.
«C'è la gente, e ci sono gli uomini». Akira Kurosawa adatta (con la collaborazione di Hideo Oguni) la pièce di Maksim Gor'kij L'albergo dei poveri, già trasposta nel 1936 da Jean Renoir (Verso la vita). L'impianto sociologico della materia di base viene riletto e trasformato dal regista giapponese, che enfatizza la componente esistenziale (centro assoluto della sua visione autoriale) ed esalta le psicologie dei singoli personaggi, empatizzando con le desolazioni connaturate alla stessa umanità. Stilisticamente asciutto e rigoroso, strutturato in chiave realista (la macchina da presa registra senza sbavature le azioni di coloro che popolano il dormitorio), il film testimonia la predilezione di Kurosawa per i derelitti (basti pensare allo splendido Dodes'ka-den, girato nel 1970) e la profonda solidarietà che contraddistingue il suo cinema («Consolare la gente non fa mai male»): non a caso, a emergere prepotente è il personaggio del filosofo Kahei, che tenta di donare conforto a chiunque ne abbia bisogno. Coerente, partecipe, a tratti straziante, in perfetto equilibrio tra farsa e tragedia: un'opera sentita e formalmente ineccepibile (straordinaria la fotografia di Kazuo Yamasaki), appena un po' appannata da un certo immobilismo dovuto alla natura teatrale del soggetto. Cast semplicemente superbo. Musiche di Masaru Sat.