Madadayo – Il compleanno
Madadayo
Durata
134
Formato
Regista
Tokyo, Seconda guerra mondiale. Ritiratosi dall'insegnamento, il professor Hyakken Uchida (Tatsuo Matsumara) coltiva il legame con i suoi ex allievi: questi, ogni anno, lo celebrano con un sontuoso banchetto per esorcizzare l'età che avanza. L'affetto per il loro anziano mentore si farà sempre più profondo.
«Cercate in voi stessi quello che ritenete veramente importante da amare e battetevi per realizzarlo fino in fondo». Akira Kurosawa, anche sceneggiatore con Ishir Honda (non accreditato), si ispira agli scritti di Hyakken Uchida e dirige il suo ultimo film, sorta di congedo al mondo del cinema e all'esistenza. Un'opera rarefatta e intimista, in cui la passione per la parola esplode e l'azione si riduce al minimo: il regista giapponese sembra contemplare la sommessa quotidianità del protagonista, con il quale si identifica completamente, celebrando il valore dell'affetto e dell'empatia e confermando quell'umanesimo che è stato il tratto distintivo di tutta la sua carriera. Al centro, come spesso accade, il rapporto allievo-maestro, venato di sfumature lievi e mai così tenere: evidente un senso di pacificazione, destinato a sfociare nell'esaltazione della saggezza e della moralità. Coerente e stilisticamente lineare, la pellicola non è esente da una certa lentezza e da qualche picco eccessivamente sentimentale, ma la caratterizzazione di Uchida, (anti)eroe in bilico tra intellettualismo e ingenuità, coraggio e paura, umorismo e serietà, riesce a toccare corde profondissime, arrivando al cuore dello spettatore. Molte le sequenze memorabili: impossibile non citare l'odissea del professore disperato per la scomparsa del suo gatto e il finale onirico. Musiche di Shinichir Ikebe, fotografia di Takao Sait e Shji Ueda.
«Cercate in voi stessi quello che ritenete veramente importante da amare e battetevi per realizzarlo fino in fondo». Akira Kurosawa, anche sceneggiatore con Ishir Honda (non accreditato), si ispira agli scritti di Hyakken Uchida e dirige il suo ultimo film, sorta di congedo al mondo del cinema e all'esistenza. Un'opera rarefatta e intimista, in cui la passione per la parola esplode e l'azione si riduce al minimo: il regista giapponese sembra contemplare la sommessa quotidianità del protagonista, con il quale si identifica completamente, celebrando il valore dell'affetto e dell'empatia e confermando quell'umanesimo che è stato il tratto distintivo di tutta la sua carriera. Al centro, come spesso accade, il rapporto allievo-maestro, venato di sfumature lievi e mai così tenere: evidente un senso di pacificazione, destinato a sfociare nell'esaltazione della saggezza e della moralità. Coerente e stilisticamente lineare, la pellicola non è esente da una certa lentezza e da qualche picco eccessivamente sentimentale, ma la caratterizzazione di Uchida, (anti)eroe in bilico tra intellettualismo e ingenuità, coraggio e paura, umorismo e serietà, riesce a toccare corde profondissime, arrivando al cuore dello spettatore. Molte le sequenze memorabili: impossibile non citare l'odissea del professore disperato per la scomparsa del suo gatto e il finale onirico. Musiche di Shinichir Ikebe, fotografia di Takao Sait e Shji Ueda.