Il newyorkese Monty Brogan (Edward Norton) vive le sue ultime ventiquattro ore da uomo libero, prima di presentarsi in carcere e scontare una condanna a sette anni per spaccio di droga. Saluterà il padre (Brian Cox), gli amici d'infanzia (Philip Seymour Hoffman e Barry Pepper), cercherà di scoprire se è stata la sua ragazza Naturelle (Rosario Dawson) a tradirlo e contemplerà il suicidio e la fuga per evitare la prigionia.

Dal romanzo omonimo di David Benioff, anche sceneggiatore, un dramma sul mito americano del ripartire da zero, mirabilmente diretto da Spike Lee. La venticinquesima ora del titolo, così evocativo e misterioso, è un simbolo tangibile, il miraggio della seconda possibilità, la metafora degli Stati Uniti pronti a restituire un po' di quello che l'uomo (con le sue mani) si è negato, affossandosi attraverso un esercizio lucido e autodistruttivo del proprio libero arbitrio, in una variante rovesciata e capovolta di segno del sogno americano e del self made man. Ma esistono seconde possibilità, è possibile ripartire o anche solo vagheggiare un orizzonte di speranza, dopo l'11 Settembre? Il regista è il primo cineasta in assoluto a posizionare fisicamente una macchina da presa affacciata sul baratro lasciato dall'11 settembre dentro Ground Zero, ma anche uno dei primissimi a indagare dal punto di vista umano e individuale cosa significhi, negli Stati Uniti traumatizzati dal collasso emotivo e sociale di un paese, il concetto di responsabilità e di colpa collettiva. Uno straordinario apologo sull'accettazione, la fuga, l'utopia di un possibile ma non scontato nuovo inizio. Forse il film più incisivo di Lee, con almeno tre sequenze da antologia: il dialogo tra i due amici di Monty di fronte al cratere di Ground Zero («Cosa abbiamo fatto per impedirgli di rovinarsi?»); la topografica, totalizzante invettiva alla specchio di Brogan nei confronti di New York, che diventa consapevolezza del proprio personale fallimento; il viaggio in auto con il padre verso il carcere, con l'esplicitazione del sogno di ricominciare e la consapevolezza che soltanto di sogno, appunto, si tratti. Cupo senza essere disperato, circostanziato ma non concettoso, tanto emblematico quanto umanissimo e vivo nel palpitante disegno dei suoi personaggi: imprescindibile per il cinema americano (e non solo) del nuovo millennio, del cui fermento (successivo all'11 settembre) rappresenta una delle maggiori pietre angolari e, in qualche modo, un punto di non ritorno. Cast in stato di grazia. Musiche di Terence Blanchard, fotografia di Rodrigo Prieto. La canzone finale è la splendida The Fuse di Bruce Springsteen. Presentato in concorso al Festival di Berlino.
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