Bed-Stuy, New York. In una torrida giornata d'estate, tutto il quartiere si raccoglie intorno alla pizzeria di Sal (Danny Aiello) e dei suoi figli, unici bianchi nel quartiere. Ma quando un cliente (Giancarlo Esposito) fa notare che sulla parete del locale, accanto ai ritratti di celebrità italoamericane, dovrebbero esserci anche eroi neri, la sempre latente tensione razziale sale fino a scoppiare violentemente.

«Non si può scindere l'odio dall'amore, sono due mani dello stesso corpo». Così ammoniscono in chiusura le citazioni delle due principali coscienze nere d'America: Martin Luther King e Malcolm X. Corre un'elettricità cattiva per le strade di Brooklyn, un odio strisciante, una marea montante come la colonnina di mercurio, come le note di Fight the Power sempre più alte dagli altoparlanti di Radio Raheem (Bill Nunn): «Most of my heroes don't appear on no stamps» («La maggior parte dei miei eroi non appare su nessun francobollo»). Spike Lee, poco più che trentenne, filma nel suo quartiere quello che resta probabilmente il vertice insuperato della sua carriera: affresco corale, fotografia spietata della facilità dell'odio e dell'impossibilità della convivenza, del rispetto reciproco e della comprensione in America. Film vivissimo e insieme amaramente impotente, come impotente è il personaggio di Mookie (interpretato dallo stesso Lee), unico impiegato nero della pizzeria e semplicemente incapace, o per meglio dire impossibilitato, ad aiutare la sua comunità nel superare il conflitto. Un'opera che è vera summa stilistica del regista: fotografia ipersatura; estetica da videoclip; montaggio rapido; colonna sonora invasiva e pervasiva tra il jazz paterno (Bill Lee) e il rap più duro e consapevole (Public Enemy); una cinepresa che interpella direttamente i personaggi e ne estrae il represso, agitandone le coscienze. Strepitoso. Presentato in concorso al Festival di Cannes dove Lee, deluso per l'esclusione dal palmarès, la giurò al presidente di giuria: «A casa ho una mazza da baseball, e sopra c'è scritto il nome di Wim Wenders».
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