Harry a pezzi
Deconstructing Harry
Durata
96
Formato
Regista
Lo scrittore vittima di un blocco artistico Harry Block (Woody Allen), in procinto di ritirare un prestigioso riconoscimento all'università che l'aveva espulso in gioventù, affronta una pesante crisi emotiva facendo un bilancio degli amori e delle disavventure di un passato che si intreccia a un presente in cui non sembra esserci spazio per la felicità.
La più radicale e pessimistica riflessione esistenziale di Woody Allen, consapevole di attraversare un tangibile appannamento creativo, è un'analisi frammentaria delle proprie nevrosi, del proprio forsennato narcisismo, del proprio intellettualismo che stride con le esigenze del pubblico "popolare". Sempre più ossessionato dal sesso («Penso a scopare ogni donna che incontro»), il regista newyorkese si è messo a nudo calandosi in un personaggio in bancarotta spirituale, con sei analisti e tre mogli alle spalle, che esplicita le pulsioni rimaste sotterranee nelle pellicole precedenti: scevro da ogni inibizione, Allen ha lasciato emergere il cinismo più tagliente su senso di colpa, depressione, cultura ebraica e paura della morte, caricando i dialoghi di corrosivo iperrealismo che insiste su una funzionale volgarità e rifiuta la consueta allure nostalgica («Sono andato in overdose di me stesso, sono una merda!»). Antinarrativo, rapsodico, decostruito, inventivo nelle trovate fantastiche (da antologia la discesa all'Inferno), nel montaggio sincopato e nella capacità di sovrapporre realtà e meta-finzione, Harry a pezzi è un'opera in cui la trivialità della parola non è altro che il (disperato) bisogno di sincerità di un autore che sente il peso dell'età che avanza. Finale amaro, tra autocelebrazione e rassegnata malinconia. Fotografia di Carlo Di Palma. Presentato fuori concorso alla Mostra del cinema di Venezia. Nomination all'Oscar per la sceneggiatura dello stesso Allen.
La più radicale e pessimistica riflessione esistenziale di Woody Allen, consapevole di attraversare un tangibile appannamento creativo, è un'analisi frammentaria delle proprie nevrosi, del proprio forsennato narcisismo, del proprio intellettualismo che stride con le esigenze del pubblico "popolare". Sempre più ossessionato dal sesso («Penso a scopare ogni donna che incontro»), il regista newyorkese si è messo a nudo calandosi in un personaggio in bancarotta spirituale, con sei analisti e tre mogli alle spalle, che esplicita le pulsioni rimaste sotterranee nelle pellicole precedenti: scevro da ogni inibizione, Allen ha lasciato emergere il cinismo più tagliente su senso di colpa, depressione, cultura ebraica e paura della morte, caricando i dialoghi di corrosivo iperrealismo che insiste su una funzionale volgarità e rifiuta la consueta allure nostalgica («Sono andato in overdose di me stesso, sono una merda!»). Antinarrativo, rapsodico, decostruito, inventivo nelle trovate fantastiche (da antologia la discesa all'Inferno), nel montaggio sincopato e nella capacità di sovrapporre realtà e meta-finzione, Harry a pezzi è un'opera in cui la trivialità della parola non è altro che il (disperato) bisogno di sincerità di un autore che sente il peso dell'età che avanza. Finale amaro, tra autocelebrazione e rassegnata malinconia. Fotografia di Carlo Di Palma. Presentato fuori concorso alla Mostra del cinema di Venezia. Nomination all'Oscar per la sceneggiatura dello stesso Allen.