Nel teatro Fitzgerald di St. Paul, in Minnesota, prende corpo il rendez-vous finale di un programma radiofonico giunto alla sua ultima puntata. Le canzoni vanno avanti come se niente fosse, ma c'è chi intende abbattere il teatro.

L'ultimo film di Robert Altman non poteva essere più esemplificativo e rappresentativo di un intero percorso di cinema e di vita, con le sue canzoni e i tanti momenti colloquiali e lirici, con i suoi numerosissimi personaggi e la struttura polifonica. Se Nashville (1975) risalisse ai giorni nostri probabilmente si mostrerebbe in questa forma anacronistica e nostalgica, sembra dirci Altman non troppo tra le righe, malinconicamente consapevole di ciò che è trascorso ma senza crogiolarsi in sterili piagnistei. Il fatto che alla fine si sia trattata della sua ultima regia consolida la sensazione struggente e insieme rassicurante del canto del cigno di un mondo che sfiorisce: la soffusa musica che esce dalla radio ha lasciato il posto a quella che viene fuori dai computer e alla gente che si urla addosso incapace di ascoltare e ascoltarsi. Il congedo più drammatico è forse quello dal buon gusto e dalla civiltà (da intendere anche e soprattutto come dovere e consapevolezza civile) di un tempo. Prologo memorabile, che sa tanto, fin da subito, di resa testamentaria: «Sono io, o almeno, ero io».
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