Les beaux jours d’Aranjuez

Les beaux jours d’Aranjuez

Anno

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Durata

97

Formato

Regista

Un uomo (Reda Kateb) e una donna (Sophie Semin), in una notte d'estate, si scambiano le proprie rispettive considerazioni sull'amore e sulla vita, nella cornice di un giardino adibito a terrazza e cullato dal respiro di un vento ora impercettibile, ora impetuoso. Sulla scena, ai margini, è presente anche uno scrittore.



Il regista tedesco Wim Wenders torna in concorso a Venezia, ben dodici anni dopo La terra dell'abbondanza (2004), con Les beaux jours d’Aranjuez, un'occasione che gli consente di rinverdire la collaborazione con lo storico sodale Peter Handke dopo Il cielo sopra Berlino (1987) e La paura del portiere prima del calcio di rigore (1972). Il risultato è una meditazione dal taglio teatrale e assorto che riflette sulle differenze tra il maschile e il femmile, sulla natura dell'essere umano e sull'esistenza, maneggiando in maniera fin troppo ostica e invasiva temi quali l'infanzia e la memoria del tempo che fu. Dopo un prologo seducente che ricorre alla leggendaria Perfect Day di Lou Reed, un inizio nel quale il 3D riveste una precisa funzione pittorica, il dialogo tra i due protagonisti si fa sempre più respingente e rarefatto, vanificando progressivamente anche l'utilizzo della tridimensionalità, che appare in definitiva totalmente pretestuosa e irritante. Esattamente come nel precedente Ritorno alla vita (2015), il 3D non aggiunge davvero nulla né alla consistenza psicologica dei personaggi né alla regia di Wenders, che parte da premesse stimolanti ma annega ben presto in un oceano sconfinato e desolante di ostinati vezzi autoriali, frangenti discutibili e sequenze sfasate e involute. Un compendio di compiacimento estremo e ombelicale, che non faticherà a trovare i suoi fan ma che, dalla sua, non ha nulla delle profonde riflessioni sull'incomunicabilità e sull'inadeguatezza delle pulsioni umane prodotte dall'autore nel corso della sua lunga e prolifica carriera. In questo gioco verbale aspro e sulfureo simile a un incontro-scontro la parola non è mai strumento conoscitivo, ma vano pretesto per far emergere le contraddizioni sintomatiche di due protagonisti scrutati costantemente dall'alto in basso, due pedine che sproloquiano di sesso in un limbo disturbante a metà tra lo storytelling e il sogno. Film vacuo, che sa solo giocare d'accumulo. Cameo scult di Nick Cave, che esegue al pianoforte Into My Arms.
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