Nashville, nel Tennessee, è teatro di un festival di musica country che riunisce vari individui dal vissuto differente: una cameriera, la moglie adulterina di un avvocato, i politici del posto col loro sostegno alla causa repubblicana per le elezioni presidenziali, una giornalista, un vecchio che accudisce sua moglie. Cinque giorni, ben ventiquattro personaggi.

Lo schiaffo più forte e tagliente alla staticità programmatica e alle convenzioni del cinema americano così come l'abbiamo conosciuto fino a questo momento diventa, nelle mani di un Robert Altman mai lasciato così libero di creare in assoluta libertà e indipendenza, una mirabile e gigantesca operazione di decostruzione, su più fronti: del conformismo stilistico, dell'unità narrativa a ogni costo, dei sani e ipocriti principi dell'americanità, dal carrierismo sfrenato allo spettacolo come merce di consumo, dalla repressione degli istinti che genera sociopatia improvvisa all'anima musicale di un intero paese. Nashville esplode come una bomba a orologeria nel cuore dei seventies, dei quali si eleva come film più critico e insieme rappresentativo. Le scorie del '68 hanno lasciato il posto a un intimismo raggrinzito e fuori posto, che una spavalderia diffusa e la consapevolezza di essere il paese più ricco del mondo non possono certo contribuire a eludere. Un moloch impressionante in cui le canzoni (ben ventisette!), registrate su ventiquattro piste sonore diverse, designano un netto fil rouge, dando vita in tal modo a una narrazione della fenomenologia dello spirito americano condotta attraverso la pratica esemplificativa del performing e del songwriting. Attori lasciati liberi da Altman di lavorare senza limitazioni nonché interpreti delle singole canzoni, tra cui Elliott Gould e Julie Christie nei panni di se stessi: una summa della prassi altmaniana, che trattava ogni attore come una freccia del suo arco da scagliare nel momento e nei modi più opportuni ma lasciava poi loro un ampio spazio d'autonomia. Scritto da Joan Tewkesbury, vanta un finale a suo modo ironico e amarissimo in cui l'assassinio della cantante Barbara Jean a causa di un improvviso colpo di pistola non sconfinfera più di tanto un pubblico ormai anestetizzato, rassegnatamente consapevole del fatto che the show must go on e non importa più neanche come. Quando, in questo esatto frangente, tra la confusione generale, parte It don't worry me ("Non me ne preoccupo"), l'effetto è insieme tragico e straniante. Oscar alla canzone I'm easy, scritta ed eseguita nel film da Keith Carradine.
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