Grande Depressione. Tre detenuti ergastolani (Keith Carradine, John Schuck e Bert Rensen) riescono a fuggire dal campo di lavoro del Midwest. Inizieranno una vita da esuli mentre le autorità preposte daranno loro la caccia. Uno dei tre si innamora e aggrega al gruppo l'amata (Shelley Duvall), trascinandola con sé nelle scorribande della banda.

Il vitalismo privo di remore, autoanalisi e sensi di colpa, quello alla Bonnie & Clyde per intenderci, ha lasciato il posto a un crocevia odisseico di situazioni in cui però gli ostacoli sono tanti e forse troppi, non c'è necessariamente un coerente costrutto di fondo e gli inciampi sono più dei momenti vissuti risolutamente a testa alta. La Grande Depressione, insomma, è forse più che uno sfondo storico. Nel riuscito film di Altman c'è un sentore di fallimento assodato, antecedente alla prassi, e si subodora come il peso di un anacronismo costante in rapporto a ciò che viene rappresentato. La prospettiva non può quindi che essere terminale, anche se la funeraria ricognizione di stampo culturale e ambientale che trovavamo ne I compari (1971) è qui esclusa per via di un'apertura moderatamente luminosa all'innamoramento, alle infatuazioni, alla commedia umana, pur incastonate tra gesti turpi e cattive azioni mai nobilitate, ma raccontate con la giusta tonalità, a metà tra il livore e la commiserazione.
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