I figli della violenza
Los olvidados
1950
Paese
Messico
Genere
Drammatico
Durata
85 min.
Formato
Bianco e Nero
Regista
Luis Buñuel
Attori
Estela Inda
Miguel Inclán
Alfonso Mejía
Roberto Cobo
Alma Delia Fuentes
Francisco Jambrina
Jesús García

Jaibo (Roberto Cobo) e Pedro (Alfonso Mejía) sono due adolescenti di Città del Messico che vivono per strada in una delle peggiori periferie. Il primo è spietato al punto da uccidere, mentre il secondo, costantemente tormentato dal senso di colpa, segue debole l'amico. Le conseguenze saranno disastrose.

Sin dall'incipit, in cui vengono mostrate diverse città (tra cui New York, Parigi e solo infine Città del Messico), si intuisce la portata globale di un'opera tra le più significative del regista spagnolo. I figli disperati dei sobborghi (a cui allude il titolo originale Los olvidados, “i dimenticati”) non sono figli della violenza, bensì esseri umani, ripudiati persino dalle loro stesse madri, che trovano nel gesto brutale e rabbioso l'unica via per imporre la propria esistenza. L'influenza neorealista assume anche i tratti di un macabro surrealismo: gli interpreti non professionisti e l'estrema crudezza della narrazione (come nella sequenza dello storpio) trovano ancora maggiore potenza espressiva accanto a inserti visionari di straordinaria forza emotiva (celebre la sequenza del sogno, nella quale si alternano complesso di Edipo, terrificante rappresentazione della morte e inquietanti apparizioni). Rifiuti, reietti, umani deformi, freaks e animali morti danno vita a un sordido ritratto esistenziale segnato da un tragico fatalismo. Bellissime scenografie di Edward Fitzgerald, che assumono un ruolo centrale nell'esaltare i terribili scheletri urbani simbolo del modernismo più spietato e della crescita insensata. Il risultato è una straordinaria pellicola fatta di ombre e primi piani strettissimi, in cui i volti stravolti e segnati sono gli assoluti protagonisti. Provocazione e scandalo sono parte integrante della pellicola stessa, il cui fine ultimo è quello di scuotere lo spettatore, mettendolo al centro di un incubo allucinato che gli faccia prendere coscienza della propria ipocrisia (geniale ed estremamente significativa in questo senso la sequenza in cui Pedro scaglia un uovo contro l'obiettivo della macchina da presa). Finale tra i più tragici e sconvolgenti di sempre, che chiude la rappresentazione cinematografica «dell'allegoria del peggiore dei mondi possibili» (Alberto Cattini). Splendida fotografia di Gabriel Figueroa. Premio per la miglior regia al Festival di Cannes, nello stesso anno in cui Miracolo a Milano (1951) di Vittorio De Sica conquistò il Grand Prix.

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