The City of Lost Souls
HyÅryÅ«-gai
Durata
103
Formato
Regista
Il brasiliano Mario (Teah) e la fidanzata cinese Kei (Michelle Reis) sognano di fuggire dal Giappone per andare in Sudamerica. Per racimolare i soldi necessari all'acquisto dei passaporti falsi, i due rubano una valigia piena di droga finendo inseguiti dalla yakuza e dalla triade cinese oltre che ovviamente dalla polizia giapponese.
Tornato nuovamente a parlare di reietti ed emarginati in un caos di etnie e lingue (questa volta all'abituale cinese e giapponese si aggiunge il portoghese brasiliano), Takashi Miike mette in immagini una sorta di racconto epico-popolare che segue le gesta di due antieroi innamorati in fuga verso la felicità (ispirandosi parzialmente a Una vita al massimo del 1993). Nonostante la molta carne al fuoco, il film sembra fallire parzialmente proprio in quello che era il punto di forza delle sue precedenti pellicole, ovvero l'acuta rappresentazione del dolore e dello sradicamento dei suoi personaggi. Miike sembra qui non volersi prendere troppo sul serio e alterna passaggi più intensi (le sequenze con il boss cinese, il personaggio più riuscito del film) a scene di tono farsesco (combattimenti di galli in CGI, improvvisi scontri di capoeira e sfide mortali a ping pong) banalizzando una riflessione potenzialmente interessante senza nemmeno riuscire a recuperare la carica eversiva e nichilista del suo cult Fudoh (1996).
Tornato nuovamente a parlare di reietti ed emarginati in un caos di etnie e lingue (questa volta all'abituale cinese e giapponese si aggiunge il portoghese brasiliano), Takashi Miike mette in immagini una sorta di racconto epico-popolare che segue le gesta di due antieroi innamorati in fuga verso la felicità (ispirandosi parzialmente a Una vita al massimo del 1993). Nonostante la molta carne al fuoco, il film sembra fallire parzialmente proprio in quello che era il punto di forza delle sue precedenti pellicole, ovvero l'acuta rappresentazione del dolore e dello sradicamento dei suoi personaggi. Miike sembra qui non volersi prendere troppo sul serio e alterna passaggi più intensi (le sequenze con il boss cinese, il personaggio più riuscito del film) a scene di tono farsesco (combattimenti di galli in CGI, improvvisi scontri di capoeira e sfide mortali a ping pong) banalizzando una riflessione potenzialmente interessante senza nemmeno riuscire a recuperare la carica eversiva e nichilista del suo cult Fudoh (1996).